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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I
Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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Presidente del Comitato generale sig. Ruggero Settimo, Segretario generale sig. Mariano Stabile.

1 °Comitato – Guerra e Marina – presidente il principe di Pantellaria, Vice presidente il barone Pietro Riso, Segretario sig. Francesco Crispi.

2 °Comitato – Finanze – presidente il Marchese di Torrearsa, vice presidente il conte Sommatino, Segretario sig. Francesco Anca.

3 °Comitato – giustizia, culto, sicurezza pubblica interna – Presidente sig. Pasquale Calvi, vice presidente il sac. Gregorio Ugdulena, Segretario sig. Vincenzo Errante.

4 °Comitato, Amministrazione civile, istruzione pubblica e commercio, presidente il principe di Scordia, vice presidente il barone Casimiro Pisani, segretario il cav. Vito Beltrami.

Componenti dei quattro Comitati. Guerra e Marina, i signori barone Andrea Bivona, Rosario Bagnasco, Pasquale Bruno, Ignazio Calona, Salvatore Castiglia, Giambattista Cianciolo, Emanuele Caruso, Damiano Lo Cascio, Giacinto Carini, Sebastiano Corteggiani, Ascanio Enea, Enrico Fardella, principe Grammonte, cav. Antonio Jacono, Giuseppe La Masa, Giacomo Longo, Domenico Minelli, Pasquale Miloro, Filippo Napoli, Faija Giovanni, Naselli Flores, Giuseppe Oddo, Andrea Ondes Reggio, Agatino Ondes Reggio, Vincenzo Orsini Giordano, Salvatore Porcelli, Rosolino Pilo Giaemi, Mario Palizzolo, principe Ottavio Ramacca, Tommaso Santoro, Francesco Vergara, Guglielmo Velasco.

Finanze – i signori conte Aceto, duca Monteleone, duca Serradifalco, Francesco Stabile, Giovanni Villa Riso, Benedetto Venturelli, Francesco Trigona, Paternostro Francesco.

Giustizia, culto e sicurezza interna – i signori Vincenzo Caccioppo, Giovanni del Castillo Sant'Onofrio, Angelo Marocco, march. Ignazio Pilo, Paolo Paternò, Francesco Ugdolena.

Amministrazione civile, istruzione pubblica e commercio – i signori Salesio Balsano, Francesco Burgio, Villafiorita, duca Gualtieri, conte Manzone, Paternò di Sessa, Federico Napoli, march. Spedalotto, Luigi Scalia, duca della Verdura.

La Città di Catania non degenera figlia della Sicilia, appena ebbe novella della gloriosa rivoluzione della magnanima Palermo corse alle armi al grido di Viva Palermo – Viva la Sicilia. Il popolo espugnò valorosamente tutti i posti occupati dalle truppe compreso il forte S. Agata. L'entusiasmo, il coraggio e la magnanimità dei cittadini risparmiò la vita ai miserabili mercenari che ardirono tirare sulla città e con le grida della vittoria e del perdono confuse quelle genti col rimorso di essersi battuti per la causa nefasta della tirannide.

Alla voce di Palermo e di Catania tutti i paesi della Sicilia risposero secondando il movimento rivoluzionario armando numerose bande pronte a combattere per la difesa della patria.

Ed ora toccava a Messina.

Ecco quel che scrivevano i delegati del Comitato di Messina a Ruggero Settimo presidente del Comitato Generale di Palermo.

"Sia gloria ai prodi che combattono per la Sicilia.

"Messina attende lo avviso da Palermo. Se deve perire morrà; ma con le armi alla mano e con il voto dell'indipendenza nel cuore.

"Sappiate intanto che la guarnigione è forte di 4000 soldati – 300 cannoni sono pronti a vomitare l'esterminio sulla città. Ma Messina sprezza il pericolo – ne facciano fede la brillante pugna del 1o settembre e la imponente dimostrazione del 6 gennaio. Messina quantunque si mostri disarmata è col fatto in rivoluzione – il suo aspetto è minaccioso, imponente; però Messina come al tempo dei Vespri desidera di gareggiare con Palermo solo nella virtù. Se per la causa comune vuolsi il sacrificio di lei essa è pronta a patirlo e ardimentosa si getterà nella voragine. Quantunque i prodi del settembre siano profughi, altri figli ella ha pronti al cimento; quantunque fu disarmata pugnerà con le mani. Se l'attuale stato minaccioso della città, i fatti già consumati, e la diversione dei 4,000 soldati bastano per aiuto alla causa comune, essa starà pronta e minacciosa; se altro vuolsi da lei, si dica. Messina è città "Siciliana" e solamente "Siciliana". Viva Palermo è il grido del popolo. Dite e sarà fatto il voler vostro. Indipendenza e libertà è il solo voto di Messina".

Ma il contegno ardimentoso, provocante del popolo messinese non piaceva ai regi. Comandava in Messina il generale Nunziante, che un giorno, credendo d'intimorire la popolazione, volle far mostra di tutte le truppe che aveva al suo comando stendendole lungo la via Ferdinando. Un abatino si staccò dal popolo che s'era addensato tanto da impedire i movimenti dei soldati, s'avvicinò al generale e gli disse: "Sono queste tutte le vostre truppe? Non ci toccherà neppure un boccone a testa". Al generale che aveva voluto scendere in piazza non restava che caricare la folla e rompere l'assembramento per tenere alto il prestigio militare, invece ordinava di rientrare nei quartieri, il che si fece fra gli urli e i fischi della popolazione. L'abatino era Felice Perciabosco che fu patriota e dei dimenticati.

Da quel momento non ebbero più tregua le provocazioni, le risse fra popolo e truppe borboniche e la sommossa divenne generale. Il bombardamento della città non faceva che inasprire gli animi dei cittadini, i quali, armatisi con armi fornite dai bastimenti, che erano nel porto e con altre mandate da Palermo, si divisero in tre schiere sotto il comando di Antonio Pracomi, di Paolo Restuccia, e di Domenico Landi, decisi di vincere o di morire e senz'altro si diè mano ai più arditi assalti.

Il 22 febbraio il forte Real Basso, Porta Saracena, Santa Chiara, i bastioni di Don Blasco, le barricate di Porto Franco, e l'Arsenale cadevano in mano delle forze cittadine. Aiutati dall'ardire eroico dei bravi cannonieri palermitani il valoroso popolo messinese si avventava furioso all'attacco. Non valse ad arrestarlo il fuoco micidiale del forte S. Salvatore e della Cittadella, traenti bombe e mitraglia contro gli assalitori; tutti questi luoghi difesi dalle truppe borboniche dovettero cedere all'imponenza del furore cittadino, mentre i nemici della patria, atterriti e sbaragliati, correvano a gambe levate a cercare rifugio nella Cittadella, unico punto ormai di loro salvezza. Da per tutto il popolo vittorioso inalberava la bandiera a tre colori. In questi eroici fatti si distinsero assai Longo, Porcella e Scalia.

Diedero esempio di patriottismo altri bravi messinesi e fra altri l'infaticabile Salvatore Bensaia; espugnato il forte Real Basso, si slanciava in altre parti dove ardeva la pugna acclamato dal popolo, quando il figlio suo Giuseppe, salito sull'espugnato baluardo per piantarvi il tricolore vessillo, veniva colpito a morte. – Portata la notizia al padre, al primo annunzio ne rimase tramortito – ma riavutosi gagliardamente gridò al popolo: "Cittadini mio figlio è morto gloriosamente per la salute della patria, io non debbo piangere la sua morte": al cittadino Valadi portarono la notizia che i suoi figli erano feriti all'attacco del forte di porta reale: l'infausto annunzio non sgomentò il patriota: preso il fucile disse: "vado io a rimpiazzare i miei figli". Giulio Colondre, ginevrino, che si unì nel combattere al popolo messinese, riportava grave ferita ad un braccio che ferro chirurgo dovette amputare – ai cittadini accorsi a confortarlo, con tutta serenità diceva: "Signori di questo mio braccio io fo dono alla Città di Messina". Moriva Tommaso Arena e rimaneva ferito anche Nicola Bensaia.

Ai soldati borbonici ridotti nella cittadella non restava altro sfogo che di lanciare ogni giorno delle bombe sulla città, ma i cittadini ne avevano fatta ormai l'abitudine, tanto che accudivano ai loro affari senza punto badarvi.

Il 24 aprile una fregata a vapore napoletana portava a Messina, incaricati di trattare l'armistizio, i commissari Plutino e Lo Presti, calabresi; il Comitato Messinese incaricava per suoi rappresentanti i cittadini Piraino, Ribotti e Natoli, ai quali, prima di altre trattative, era dato il mandato dello sgombro della Cittadella.

Così la Sicilia, che aveva dichiarato decaduto il Re delle due Sicilie, era liberata da tutte le truppe borboniche.

A Palermo veniva istituita la Guardia Nazionale affidandone l'incarico al Comandante generale Barone Riso.

Collaboratori

Duca di Monteleone, Marchese Casimiro Drago, Leopoldo Pizzuto, Conte Lucio Tasca, Cav. Luigi Gravina, Andrea Mangeruva – Tommaso Abbate Segr.

La rivoluzione della Sicilia del 1848 sarà ricordata come uno dei più meravigliosi fatti storici. Il prodigio operato da Palermo gli ha guadagnato il rispetto e l'ammirazione generale.

Le notizie delle Calabrie erano da per tutto favorevoli al movimento insurrezionale.

A Cosenza, centro delle operazioni, nido di uomini generosi, il cui suolo, santificato più volte dal sangue di tanti martiri ed ove rosseggia tuttora di quello dei fratelli Bandiera e compagni, tutte le cure erano rivolte ad un unico scopo, distruzione della tirannia. A Nicastro come in altri punti della Calabria si riunivano uomini armati per dare la caccia ai borbonici, correre serrati a Reggio al grido di viva la libertà.

Nelle provincie di Catanzaro, di Abruzzo, di Salerno, di Lecce, di Campobasso e di Avellino, si apprestavano armi ed armati. Che più? Napoli insorgeva massacrando Svizzeri e spie borboniche.

L'ora della libertà pareva suonata da un punto all'altro d'Italia! Sventuratamente non fu di lunga durata; mancò un'unica direzione e la concordia.

Dal Ministero di Guerra e Marina veniva emanato il seguente ordine del giorno:

Gloria e lode ai nostri fratelli di Calabria. Un avviso telegrafico giunto ieri da Messina alle ore 23-1/2 così avvisa:

Dal piano della Corona ci viene con espresso avvisata la disfatta delle truppe borboniche per parte dei naturali di Catanzaro e la morte del Nunziante; l'azione ebbe luogo presso il fiume Angitola nel giorno di ieri.

Ci consola, o Cittadini, vedere eseguita con tanta giustizia l'ira del Cielo.

Attendiamoci di sentire altre vittorie, acciò si giungesse al santo scopo di liberare gli afflitti fratelli del Continente dal duro giogo d'un barbaro.

Palermo, 30 giugno 1848.

Il Maresciallo di Campo, Ministro della Guerra

Giuseppe Paternò

CAPITOLO III

Garibaldi s'imbarca coi suoi legionari per l'Italia

Si era alla fine del 1847 e ogni bastimento che approdava alla Plata, portava dal vecchio continente l'annunzio di avvenimenti importanti.

Un nuovo Pontefice benediva l'Italia, perdonava ai ribelli, accoglieva i proscritti, e poneva sotto la tutela della Croce la causa dei popoli. Queste notizie entusiasmavano i legionari e la partenza per l'Italia era nella mente di Garibaldi ormai risoluta. L'annunzio della sollevazione di Palermo e di Messina venne a precipitarla; la lotta era già incominciata; in Italia si combatteva e si moriva per la libertà; il posto suo e della legione era indicato.

Una pubblica sottoscrizione venne aperta fra gli italiani in favore della spedizione comandata da Garibaldi. Un brigantino era stato noleggiato e si stava apprestando per la partenza. Invano il Governo di Montevideo, conscio della perdita che stava per fare, tentava trattenere con preghiere, con lusinghe Garibaldi ormai impaziente; invano gli stranieri stessi che vedevano nel generale una delle più sicure garanzie dello Stato e dei loro interessi, si associavano al Governo nel sforzarlo a ritardarne quanto più poteva la partenza; ma Garibaldi non si sentiva più padrone della sua volontà, e le insistenze e gli indugi lo inasprivano e lo si sentiva pieno di amarezza dire "duolmi che arriveremo gli ultimi e quando tutto sarà finito".

Però egli stesso capiva che per ottenere la riuscita della impresa era necessario precisarne la meta, avvertire gli amici e prepararle in Italia il terreno.

Poco dopo la giornata del Salto era sbarcato a Montevideo e si era arruolato nella legione Giacomo Medici. Era un giovane bello di forme, intrepido di cuore, affabile di modi; e Garibaldi, intuendo nel Medici un valoroso che avrebbe immortalato il suo nome, l'ebbe subito assai caro e ripose in lui tutta la sua fiducia. Garibaldi pensò subito di mandarlo in Italia quale foriero e preparatore della divisata spedizione e lo muniva delle seguenti

ISTRUZIONI

"Terrai presente che scopo nostro è di recarci in patria non per contrariare l'andamento attuale delle cose, e i Governi che v'acconsentano; ma per accomunarci ai buoni, e d'accordo con essi andare innanzi pel meglio del paese; ma che noi preferiremmo lanciarci ove una via ci fosse aperta ad agire contro il tedesco, contro cui devono essere rivolte senza tregua le ire di tutti; e tanto più lo vorremmo, perchè la gente che ci accompagna è mossa da questo ardentissimo desiderio: perchè questo avvenga ti recherai:

"1. A consultare Mazzini intorno ai passi da farsi onde preparare le cose nel senso suindicato; quindi t'affretterai per alla volta di Genova, Firenze e Bologna, a meno che con Mazzini non risolviate altrimenti.

"2. Dagli amici ti procurerai commendatizie per tutti quei punti che crederai utile di visitare, affine di dar moto a preparare gli uomini, e combinare elementi di cooperazione.

"3. Scorsi quei paesi, ti ridurrai a Livorno come luogo più acconcio a sapere di noi.

"4. Una delle cose che dovrai tenere in vista, si è quella di indurre gli amici a tener pronti quei mezzi indispensabili a provvedere il bisognevole almeno pei primi giorni, affine di non correre il rischio di perdere il frutto di tante fatiche e dei sagrifici fatti con tanta generosità dai nostri compatriotti di Montevideo.

"5. I venti, ed altre cause, potrebbero obbligarci a toccare Gibilterra. Se Mazzini ha ivi persona fidata le diriga lettere per me, informandomi della marcia delle cose e sul da farsi – e potrà, appena tu arrivi, cominciare a scrivere. La persona che incaricasse dovrebbe stare sempre all'erta, affine di farmi pervenire ogni cosa a bordo e subito. Dal nome del bastimento chè quello di "Speranza" con bandiera orientale, sarebbe al momento avvertito del nostro arrivo – e perchè ne fosse più sicuro e potesse riconoscerlo facilmente, alzeressimo all'albero di prora una bandiera bianca attraversata orizzontalmente per quanto è lunga e nel bel mezzo, da una striscia nera.

"Di quanto scrivesse a noi potrebbe darti avviso se ciò potesse farci mutare di direzione".

Montevideo, 20 febbraio 1848.G. Garibaldi

"Le lettere che io ti scriverò a Livorno saranno dirette al nome di M. James Gross – nella soprascritta – sig. Giacomo Medici".

Il Medici infatti dopo tre giorni s'imbarcava per la sua missione; e il 15 aprile 1848 Garibaldi medesimo, accompagnato da ottantacinque de' suoi legionari, fra cui l'Anzani, ammalato, il Sacchi, ferito, Ramorino, Montaldi, Marocchetti, Grafigna, Peralta, Rodi, Cucelli e il suo moro Aghiar, soccorso dallo stesso Governo Orientale di armi, munizioni, col brigantino "La Speranza" salpò da Montevideo per la terra Italiana.

CAPITOLO IV

Venezia si erige a repubblica

Milano e le cinque giornate

L'annunzio d'una sollevazione degli studenti viennesi propagatosi alla metà di marzo, spinse il popolo veneziano alla presa delle armi per la cacciata dello straniero. Si combattè nella città della laguna per cinque giorni e il popolo veneziano, rimasto vittorioso, liberava Manin e Tommaseo e si erigeva in repubblica.

Il 18 marzo Milano iniziava colle barricate le memorande cinque giornate. Mentre gli Austriaci avevano fatto del Broletto la loro cittadella e luogo di macello; mentre dal Castello si prendeva di mira l'italiano che giungeva a tiro – al suono delle campane a stormo il popolo impegnava la lotta sotto la direzione di un Comitato di salute, del quale facevano parte Carlo Cattaneo e Enrico Cernuschi.

Non sgomentavano i Milanesi il rombo assordante del cannone, al quale rispondevano coi rintocchi delle campane; e la strage che facevano le truppe imperiali, spronava alla lotta, alla vendetta gli eroici insorti per la patria libertà.

E la lotta fu aspra, violenta, combattuta corpo a corpo. I cittadini si scontravano con le pattuglie, che numerose stavano appostate in ogni via della città, le affrontavano con ardimento; uccidevano od erano uccisi, mentre dalle finestre delle case, dai tetti pioveva pioggia micidiale di tegole e di sassi – e di quartiere in quartiere si scacciavano le truppe con valore senza pari.

Il 23 marzo fu giorno di vittoria e di giubilo per la città di Milano. Assaliti da ogni parte, gli Austriaci cacciati dal popolo che non dava loro tregua, al Radetzky non restò che di ordinare la ritirata.

L'eco delle cinque giornate risuonò per tutta Italia commuovendo le popolazioni ed incitandole alla riscossa.

CAPITOLO V

Carlo Alberto bandisce la guerra all'Austria

Il 23 di marzo 1848 il Re Carlo Alberto bandiva la guerra all'Austria, ed il 27 dello stesso mese si metteva alla testa delle sue truppe con a Capo di Stato Maggiore il generale Salasco. L'esercito piemontese, forte di circa 60 mila uomini, era diviso in due corpi d'armata, il primo era comandato dal generale Eusebio Bava; il secondo dal generale Ettore De Sonnaz; a capo dell'artiglieria era il Duca di Genova, e d'una terza Colonna era comandante il principe ereditario Vittorio Emanuele.

Le altre forze che concorsero alla guerra in Lombardia erano 5000 Toscani, 3000 Parmensi e Modenesi, 15000 dello Stato Pontificio, 4000 volontari Lombardi. Le truppe Napolitane comandate dal generale Pepe erano entrate in Venezia. Le forze Austriache erano di 80 mila uomini suscettibili di rinforzi.

Il giorno 6 di aprile le truppe Sarde ebbero cogli Austriaci un forte scontro al ponte di Goito ed a Monzambano ove i bersaglieri comandati dal Colonnello Lamarmora, il battaglione Real Navi e i cannonieri si copersero di gloria.

Il giorno 13 s'investiva Peschiera con vivissimo cannoneggiamento.

Il 24 le truppe Toscane prendevano posizione a Montanara ed a Curtatone alla destra dell'armata Piemontese.

Nello stesso giorno la colonna mobile dei Modenesi comandata dal Maggiore Fontana fu attaccata da un Corpo Austriaco sulla strada di Mantova ad un miglio da Governolo. Il combattimento sostenuto dai nostri con valore durò circa tre ore e terminò con la ritirata degli Austriaci. In appresso quasi ogni giorno si ebbero scaramuccie nelle prossimità di Mantova dagli avamposti Piemontesi, e da quelli Toscani e Modenesi, fin che si arrivò al 13 maggio, nel qual giorno verso le due pomeridiane 5000 Austriaci attaccarono le posizioni di Curtatone e Montanara tenute dai Toscani; l'attacco fu sostenuto con vigore per oltre tre ore e i Tedeschi furono respinti con forti perdite sotto le mura di Mantova.

I reduci dall'America non conoscevano gli avvenimenti del febbraio, la sollevazione di Vienna, la riscossa di Venezia, le barricate di Milano, l'entrata di Carlo Alberto in Lombardia e le prime vittorie delle armi italiane sul Mincio; tutto questo era loro interamente ignoto; quindi Garibaldi era incerto del luogo e della meta del suo sbarco – e l'animo suo ondeggiava tra i consigli avuti dal Mazzini, che con uno scritto lo spingeva a sbarcare in Sicilia e gli accordi presi col Medici per i quali erasi impegnato ad approdare in Toscana, mentre il suo vivo desiderio era di scendere ove fosse più pronta l'occasione di menar le mani. Obbligato ad approdare a Palos presso Cartagena per fare provvista di viveri, Garibaldi riceveva dal vice Console Francese la lieta notizia della guerra dichiarata all'Austria. Non più esitazioni – la via era tracciata, la meta era designata. A Garibaldi urgeva senza perdere un istante dirigere la prora verso la costa della Liguria per essere più vicino al teatro della lotta, ed offrire senza esitare il braccio suo e dei suoi a Carlo Alberto.

I venti lo obbligarono ad approdare a Nizza, ed alle 11 antimeridiane del 21 giugno 1848, inalberante la bandiera di Montevideo, gettava l'ancora nel porto della sua Città natale.

Nello scendere a terra un urlo d'entusiasmo lo saluta, facendogli suonare all'orecchio nel dolce idioma natio quel grido d'ammirazione che da tanti e tanti anni non aveva più udito se non in lingua straniera, in terra straniera.

Non perdette tempo Garibaldi.

Riordinata la legione, alla quale i Nizzardi avevano recato un primo rinforzo, il 28 giugno di mattina salpa con circa duecento volontari ben armati ed equipaggiati, ed arriva a Genova nel pomeriggio del 29, accolto dai Genovesi coll'entusiasmo di popolo con cui era stato acclamato a Nizza, e ricevuto dalle autorità con ogni dimostrazione d'onore.

Per debito di cortesia prima di partire da Genova dovette accettare l'invito fattogli d'intervenire ad un'adunanza del Circolo Nazionale; fu obbligato dopo avere uditi diversi discorsi a pronunziarne uno egli stesso per esprimere il suo giudizio sulle cose della guerra e sulle condizioni dell'esercito. Procurò di schermirsi, ma dovette cedere alle vive insistenze e con parola misurata e con molta franchezza si espresse così:

"Voi sapete che io non fui mai partigiano dei Re. Ma poichè Carlo Alberto si è fatto il difensore della causa popolare e muove guerra allo straniero per l'indipendenza nazionale, io ho creduto dovergli recare il mio concorso e quello dei miei camerati.

"Il maggiore pericolo che ci sovrasta è quello che la guerra si prolunghi e non sia terminata quest'anno. Noi dobbiamo fare ogni sforzo perchè gli Austriaci sieno presto cacciati dal suolo italiano e non si abbia a sostenere una guerra di due o tre anni. Ora noi non possiamo ottenere questo intento se non siamo fortemente uniti. Si bandisca da noi la politica, non si aprano discussioni sulla forma di governo, non si ridestino i vecchi partiti. La grande, l'unica questione del momento è la cacciata dello straniero, è la guerra dell'indipendenza.

"Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione dell'Italia, io ho giurato di ubbidirlo e di seguire fedelmente la sua bandiera. In lui vedo riposta la speranza della nostra redenzione; Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo; gli sforzi di tutti gl'italiani si concentrino in lui. Fuori di lui non vi può essere salute.

"Uniamoci dunque tutti nel solo pensiero della guerra allo straniero; facciamo per la guerra ogni sorta di sacrifici. Pensiamo che essi saranno sempre minori di quelli che c'imporrebbero i nemici se fossimo vinti".

Queste parole vennero accolte da grandi applausi, e Garibaldi fu nominato socio onorario del circolo Nazionale.

Garibaldi senz'altro partì per Torino. – Passata in fretta Novara, e toccata Pavia per salutare il suo grande amico Sacchi, il quale andava raccogliendo volontari, al 4 di luglio arrivò al Quartiere Generale in Roverbella, e si presentò immediatamente al Re.

Questi lo accolse con grande cortesia, si mostrò edotto delle sue gesta di America, se ne compiacque altamente congratulandosi con lui. Ma all'offerta che Garibaldi gli fece di sè e dei suoi compagni, quale Re costituzionale si credette obbligato di mandare il Generale ai suoi Ministri.

Garibaldi non perdette tempo – si presentò al Ministro della Guerra Generale Ricci, bravo uomo, colto militare, ma pieno di pregiudizî; questi credette di non potere accettare i servigi che Garibaldi offriva alla causa italiana combattendo con l'esercito, per ragioni di regolamenti ecc. – e finì per consigliarlo di recarsi a Venezia "campo degno di lui, dove poteva prendere il comando di qualche flottiglia tanto utile a quell'assediata Città". A Garibaldi "uccello di bosco e non di gabbia" non piacque quel suggerimento – deliberò invece di recarsi a Milano, dove giunse la sera del 15 luglio e dove l'aspettava miglior fortuna.

Milano era pur sempre la città delle Cinque Giornate e quindi il concetto della guerra popolare rivoluzionaria era sorta dalle barricate.

CAPITOLO VI

Garibaldi a Milano prende il comando dei Volontari

Il governo provvisorio s'affaccendava a reclutare quante più milizie poteva, ed accoglieva volontieri quanti venivano ad offrirgli il loro braccio; e però il giorno stesso del suo arrivo esso offerse a Garibaldi il comando di tutti i volontari raccolti fra Milano e Bergamo, i quali sommavano a circa tremila.

Non era forza atta a salvare il paese, ma più di quanta in quel momento Garibaldi potesse desiderare. Si occupò quindi senz'altro dell'armamento dei suoi volontari; li ordinò in battaglioni, dando al più scelto il nome del suo amico Anzani morto, suo compagno di Montevideo, ponendolo sotto il comando di Medici che si era unito a lui a Torino.

Nel pomeriggio del 25 luglio, obbedendo a un ordine del Governo Provvisorio, lasciò i quartieri di Milano e s'incamminò verso Bergamo.

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