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Tre racconti
Tre racconti

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Tre racconti

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Erano giunti nuovamente innanzi alla casa. La luna, liberata dal velo delle nubi, tornava a splendere brillante. Pietro trasse l'oriuolo e guardò l'ora.

“Eh! la mezz'ora è passata oramai… non mancano che tre minuti… tre minuti più o meno, non monta… non sarà in questi tre ultimi minuti che si sarà aspettato a parlare dell'argomento… io non ci posso più reggere… vado.”

Atanasio lo arrestò bruscamente per un braccio. Pietro gli si volse stupito.

“Che cosa?”

“Un piacere:” disse l'operaio con voce tremante. “Mi faccia sapere… subito la risposta di lei… della giovane… La prego!.. una sola parola.”

“Oh come?” domandò il principale vieppiù stupito. “Oh che tanto ti preme?”

“Sì… mi preme sapere se Ella sarà felice;” rispose Atanasio con voce roca.

Pietro credette in questa spiegazione; strinse con forza la mano all'operaio dicendogli:

“Grazie mio buon amico. L'ho sempre saputo che tu mi vuoi bene. Or via aspetta qui un momento e ti comunicherò l'esito…”

Una delle porte-finestre s'aprì, e una donna inoltrata in età si avanzò sul terrazzo.

“Sei tu Pietro?” diss'ella venendo fino alla ringhiera.

“Mamma! mamma!” esclamò il giovine palpitante.

“Vieni! presto!” disse la donna e rientrò sollecita in casa.

Pietro si slanciò di corsa verso l'entrata.

Atanasio rimase immobile, piantato innanzi al terrazzo. Non era una sufficientemente chiara risposta il fatto d'esser venuta la madre medesima a sollecitare il ritorno del figliuolo? Avrebbe ella fatto così se le parole di Lucietta non fossero state secondo il desiderio di Pietro? Eppure, vedete quanto è tenace la illusione nel cuore umano! il povero operaio rimaneva ancora colà, attaccato a un lieve filo di speranza.

Pietro non obliò Atanasio e la promessa che gli aveva fatto. Dopo un poco uscì sul terrazzo e le sue sembianze, illuminate dalla luna in quel momento limpidissima, apparvero all'operaio così piene di gioia che niuna parola più occorreva ad annunziare la ventura del giovane.

“Atanasio,” gridò Pietro con voce commossa e sonora: “Sono felice… va', e che ciò possa farti passare una buona notte anche a te!”

VI

Una buona notte! Quale scherno!

La luna erasi nascosta di nuovo, e pareva definitivamente. In quella lotta fra la luce e le tenebre, queste sembravano aver vinto, e regnava sulla natura una fitta oscurità. Ma più oscuro ancora era l'animo d'Atanasio. Quali orrende idee gli passassero per la mente, quali spasimi gli torturassero il cuore, fu sempre un segreto fra lui e il Cielo. Non rientrò nella sua povera abitazione che il mattino: ma a chi lo vide, egli ebbe a parere invecchiato di anni.

Da quel giorno egli non fu più visto a ridere e nemmeno a sorridere. Tornò a frequentare l'osteria, ed anzi più assai di prima; il suo umore ridivenne peggiore che non fosse stato mai, rabbioso, maligno, scontroso, insofferente. Sfuggiva tutti: più di tutti gli altri Taddeo, Lucietta, e Pietro medesimo, quando le faccende dell'opificio non l'obbligassero a trovarsi con lui. Costoro, nel colmo della loro gioia, non s'accorsero pure menomamente della nuova selvatichezza d'Atanasio.

Nella fonderia, tra gli operai, nel villaggio e nelle vicinanze fra tutti gli abitanti non v'era più altro discorso che quello del prossimo matrimonio del giovane e ricco padrone delle officine colla povera figliuola del veterano. Tutti lodavano a cielo la generosità del giovane; le ragazze invidiavano un po' indispettite la fortuna della fanciulla. Quando udiva che s'incominciava a parlar di ciò, Atanasio tirava via senza dir nulla. Fu visto, il disgraziato, parecchie volte ubbriaco fradicio – la qual cosa prima non gli capitava mai – correre per la campagna gridando parole incomposte, urlando vaghe minaccie, per cadere poi come morto in un fosso. Aveva bandito da sè ogni nettezza, viveva disordinatamente come il più vizioso degli operai: ogni giorno più sembrava imbestialirsi.

Pietro, nell'eccesso della sua gioia, aveva ben altro a cui pensare, che i diportamenti del suo compagno d'infanzia; ma pure non potè a meno di accorgersi di tanta mutazione, e un giorno, avutolo a sè, glie ne fece amorevoli rimproveri; gli ricordò la sua buona condotta d'un tempo, gli rammentò come coll'economia, colla sobrietà, potesse procurarsi un migliore avvenire.

“Che la vuole?” rispose l'operaio con voce rauca, a testa bassa, senza guardare in faccia il suo principale. “La vita è una cosa tanto breve, e tanto da nulla; io sono così solo e così senza conforti di sorta! La parsimonia, la temperanza, l'economia, la virtù a che cosa mi meneranno? Io non sono fatto per essere stipite d'una famiglia… sono solo, vivrò sempre solo, creperò solo…”

“E perchè?” interruppe il sor Pietro con qualche vivacità. “Un onest'uomo ha il dovere, e ci trova la sua felicità, di mettere al mondo dei figliuoli che saranno galantuomini come lui.”

“E se invece diventassero birbanti?.. Lo so io stesso per sicuro d'essere un onest'uomo?”

“Atanasio!”

“Eh! mi scusi… Ciascuno ha le sue idee… Finchè non faccio male a nessuno mi lasci divertire a mio modo, finchè la duri.”

E s'allontanò senza più voler ascoltare parola.

Era stato quindici giorni senza metter piede alla casetta bianca. La vigilia proprio delle nozze si decise a recarvisi. Taddeo gli fece gentilmente rampogna della sua mancanza; Lucietta, fatta più bella che mai dalla sua felicità, gli venne incontro salutandolo colla medesima cordialità di prima.

“Caro Atanasio,” gli disse, “finalmente eccovi qui di nuovo. Non vi si vede più! E sì che avevo bisogno di dirvi tante cose, di ringraziarvi…”

“Ringraziarmi!” interruppe Atanasio stupito e corrugando le sopracciglia.

“Sicuro!.. Io so quanto siete buono, quanto amate il mio Pietro, di che modo avete preso parte alla nostra felicità.”

Atanasio arrossì fino sulla fronte; egli che, se fosse stato in poter suo, avrebbe fatto spalancare la terra sotto la casa dei Frangia perchè ve li inghiottisse tutti.

Lucietta continuava lietamente:

“Oh! Pietro mi ha detto tutto… Ma egli eziandio vi ama dimolto, e non so che cosa non farebbe per procurarvi del bene.”

“Oh sì,” mormorò l'operaio coi denti stretti. “Lo so!.. Me ne ha già fatto tanto!.. Me ne fa tanto sempre del bene!”

Nè Lucietta nè altri avvertirono la feroce ironia che si nascondeva sotto quelle parole.

“Ed ora,” riprese la fanciulla sorridendo e come per cambiar discorso, “voi siete giunto proprio a tempo, perchè ho da domandarvi un piacere.”

“Che cosa?” disse freddamente Atanasio.

“La nostra cagnetta partorì tre bestioline: due sono morte e l'ultima che ancor rimane, mio padre la vuol sacrificare anch'essa.”

“Uh!” saltò su il vecchio soldato. “Tre brutti mostri da fare schifo… Lei è già brutta da non potersi dir quanto, ma quei suoi piccini riuscirono d'una bruttezza che eccede ogni limite di discrezione. E Lucietta s'è cacciata in capo di conservare sì bella razza? Due per fortuna sono già iti, e il terzo sto per iscaraventarlo giù del burrone.”

“No, no, babbo, non farete ciò:” disse la figliuola con graziosa bizza capricciosetta. “E' son nati quel giorno appunto che tornai qui felice di tanto: vo' che quest'ultimo sopravissuto sia salvo; ed è a voi Atanasio che lo raccomando.”

“A me?”

La cagna, come se avesse capito che si parlava del suo neonato, e giudicato che questo era appunto il momento opportuno di mostrarsi, saltò fuori, accompagnata dal suo piccino veramente orribile.

“Eccola qui,” esclamò Lucietta; “ed ecco Azor. Gli ho posto nome Azor, a questo piccino, e mi farete piacere a conservarglielo.”

“Volete che lo prenda io?” domandò Atanasio di mala voglia.

“Non è vero che me lo farete questo piacere? ve lo terrete per mia memoria… Ecco.”

Il giovane sorrise amaramente. La cagna che eragli venuta fra le gambe lo salutava con amorevole agitar di coda, lo guardava con occhio che pareva supplichevole, ed avreste detto che gli si raccomandava anch'essa. L'operaio si curvò a terra e prese fra le mani il cagnolino.

“Per vostra memoria, Lucietta:” ripetè esaminandolo e con un accento fra di mestizia e d'ira repressa.

Taddeo si cacciò a ridere di buon cuore.

“Bella memoria! Non è vero che è una perfezione di bruttezza?”

La cagna si fregava contro le gambe di Atanasio, e il cagnolino, ch'egli teneva fra le braccia, gli leccava le mani.

“Ebbene sia,” egli disse: “io lo alleverò! Sarà la mia compagnia… – Mia unica compagnia! – soggiunse fra sè con amarezza.

Si portò via il canino. L'uomo ha tanto bisogno di mettere affezione in altrui, che Atanasio il quale, per le sue tristi condizioni, non poteva oramai amare nessun essere umano, prese a voler bene a quel mostricciuolo di cagnolino. E' non si sentiva più così solo sulla terra: aveva una occupazione diversa da quella del suo mestiere, e se ne compiaceva; era uno spasso, una diversione da' suoi usati pensieri che gli faceva del bene; se lo portava seco, quell'animale, perfino alla fonderia; usciva di molte volte, solamente per farlo passeggiare; lo accarezzava, quando nessuno lo poteva vedere, come altri fa d'un bambino.

– Ecco la mia sola famiglia, – dicevasi con pungente amarezza: – ecco il mio solo amore, ecco tutto il mondo per me… un cane! —

In Azor la bruttezza, che invece di scemare veniva aumentando ogni giorno, era compensata da molta intelligenza e superiore ancora l'affettuosità. Pose al suo padrone un amore che nulla più; e come s'ei ricordasse la protezione datagli da Lucietta, dopo Atanasio era colei che prediligeva, e ogni qual volta la vedesse, le andava incontro a farle un'infinità di feste.

Pietro e Lucietta, frattanto, vivevano felici. Si amavano proprio sul sodo, non solamente per trasporto giovanile, ed erano affatto degni l'uno dell'altra a vicenda. Atanasio li fuggiva con cura. Un anno dopo il cielo mandava alla giovane coppia un bel bambino. Tutte le felicità!

L'operaio era diventato sempre più misantropo; fuori dell'officina, non lo si vedeva più in nessun luogo mai, fuor che all'osteria: colà beveva da solo, non permetteva che nessuno sedesse alla sua tavola, respingeva bruscamente ogni tentativo di accostarlo, e quando cominciava a sentirsi ubbriaco, balbettava parole inintelligibili e partiva barcollando, accompagnato dal suo indivisibile cane, per andarsi a nascondere, non si sapeva dove.

Un giorno, Lucietta e Pietro, ai quali molto rincresceva il degradamento di questo valente giovane, ebbero la infelice ispirazione di volerlo ritornare quel di prima. Cercavano di lui, lo chiamavano sovente in casa loro; e Lucietta principalmente, colta ogni occasione per averlo a sè da sola, si pose a trattarlo con assai amorevolezza, nell'intento di fargli scorgere il torto della sua vita presente e destargli la voglia di ammendarsi.

Atanasio da prima si schivò, parve anzi fuggire con più cura tutti, e la moglie specialmente del suo giovane principale; poi si lasciò cogliere alla dolcezza di quei momenti in cui si trovava solo con lei e n'era trattato con tanta amorevolezza; finì per accarezzare le più pazze illusioni, che sapeva essere illusioni, ma nelle quali cercava e trovava una morbosa soddisfazione. Pareva rinata fra Lucietta e lui la famigliarità d'un tempo, quando Atanasio, lassù alla bianca casetta, andava ad attinger acqua per lei, col secchiello ch'ella faceva le mostre di contrastargli.

Le rimostranze e i consigli di Lucietta parevano aver ottenuto un felice successo. Atanasio tornava ad essere più pulito, meno misantropo, non allegro, ma meno scontroso, non mite, ma meno permaloso ed irascibile: lavorava con più ardore ancora, teneva condotta più regolata. Solamente, il vizio onde non si era guarito era quello del bere. Però se ne nascondeva accuratamente. Non si frammischiava più alla frotta dei beoni; penetrava di soppiatto nell'osteria a notte inoltrata, quando ogni altro n'era già partito, si faceva recare in una stanza un numero di bottiglie, e là, rinserratosi col suo Azor, beveva, beveva, finchè ne smarriva completamente la ragione; allora parlava, e diceva a sè stesso, al cane, alle pareti, alle bottiglie, le mille cose, che non avevano senso, che parevano il delirio d'un pazzo, cose tali che se egli avesse mai sospettato che un altr'uomo le avesse udite, lo avrebbe strozzato colle sue mani. Al mattino si riscuoteva dal pesante letargo, in cui aveva finito per cadere; si versava in capo tutta una brocca d'acqua gelata, pagava l'oste e correva all'officina dove lavorava più indefesso che mai. Ci volevano i muscoli di ferro e i nervi d'acciaio che gli aveva dato madre natura per resistere ad una tal vita.

E ad Azor Atanasio voleva sempre più bene. Spesse volte quando era solo nella sua camera, lungi da ogni occhio ed orecchio umano, egli se lo prendeva fra le braccia, quel brutto aborto di cagnuolo, e lo stringeva, e lo accarezzava, e lo baciava!.. dicendogli coll'accento, con cui altri parlerebbe ad un amante:

– Caro il mio Azor, voglimi bene almeno tu. Io, a te, ti voglio tanto bene!.. È lei che ti ha dato a me; e lei… sappilo, ricordatene, ma non dirlo a nessuno veh!.. lei, io l'amo sempre, e sempre più… e furiosamente! —

VII

Gli affari della fonderia, intanto, sotto l'abile direzione del signor Pietro, prosperavano sempre meglio.

Il giovane principale, che tutto curava, tutto voleva vedere egli stesso, a tutto sopraintendeva e provvedeva, era perciò obbligato a fare frequenti gite lungi del villaggio, per acquisto di carbon fossile, di minerali, di macchine, per trattare a viva voce di ordinazioni, per intraprendere forniture ed appalti: e queste assenze, più o meno lunghe, dimolto rincrescevano e recavano malinconia a Lucietta la quale il suo sposo amava sempre più, come, in realtà, il bravo Pietro meritava che fosse.

Nei tristi giorni della lontananza del marito, la giovane soleva cercare conforto nelle occupazioni della maternità, intorno a quel gioiello di bimbo, ch'ella amava con vero trasporto, e nella compagnia d'Atanasio, il quale, come compagno d'infanzia di Pietro, le pareva ricordarle più efficacemente il caro lontano. E questi stesso, prima di partire, soleva dire sorridendo ad Atanasio:

– Ti raccomando mia moglie veh! Falle buona compagnia. —

L'operaio obbediva zelantemente; in quei giorni tutte le ore che aveva libere, le passava con Lucietta: e sapeva così bene condurre il discorso, che parlavano il più spesso dei tempi passati, prima del matrimonio di lei, delle ore che trascorrevano così leste e così liete nelle belle sere estive sull'aia della casetta di papà Taddeo; e Lucietta, che vedeva il volto sempre cupo ed arcigno dell'operaio rasserenarsi, e capiva quanto bene gli facessero siffatte chiacchierate, gentilmente e con amorevole bontà vi si prestava.

La infelice non sapeva, colla sua generosa e caritatevole debolezza, quale ardore ponesse nel sangue di quell'uomo, quali folli idee nella mente, quali audaci e impossibili sogni nella fantasia! Quando Pietro ritornava, Atanasio allontanavasi di nuovo, si rifaceva più solitario e più taciturno; ma fra sè e sè continuava a pensare agli avuti colloqui, interpretava a suo modo, o per dir meglio a gusto della sua passione, parole ed atti di Lucietta, si guastava lo spirito e la ragione col martellare continuo d'un'idea fissa. La sua diventava così, per davvero, un'infermità del cervello, una monomania.

Allora appunto, quando era al suo apogeo questa morale esaltazione del disgraziato, Pietro ebbe a partirsi di là per quattro o cinque giorni, affine di procacciarsi certo nuovo combustibile di cui voleva fare esperimento in una nuova maniera di forni. Ferveva più che mai il lavoro; per la fine della settimana dovevasi dare compìta una certa fusione importantissima e di grandi proporzioni, per cui da tanto tempo s'era in moto ad aggiustare le forme, preparare il materiale, acconciare gli alti forni. Prima di partire, il principale ebbe a sè Atanasio, e gli disse:

“Mi tocca abbandonare la fonderia proprio in un momento de' più importanti e in cui si richiederebbe imperiosamente la mia presenza; ma urge pure all'estremo andare per quel tal affare nel quale non posso farmi sostituire da nessuno. Invece qui alla fonderia lascio te, che sai, e sei capace, e di cui mi fido interamente; adunque su te, mio caro Atanasio, tutto il carico fino a sabato. Io arriverò immancabilmente venerdì sera; voglio trovar tutto pronto, perchè sabato mattina di buon'ora si possa cominciare il gitto; bada bene di preparare ogni cosa, e non voglio sentir poi pretesti nè scuse. Hai capito?”

“Sì signore.”

“Dunque ci conto sopra. Ricordati bene! A venerdì sera.”

Il signor Frangia partì. Atanasio non ebbe in realtà altro pensiero fuori questo: – Lucietta è sola! – La giovane donna, per maggior fatalità, mai non era stata così benigna ed amorevole all'operaio, nel quale non vedeva che il compagno d'infanzia, l'amico devoto, la persona di maggior fiducia di suo marito.

L'esaltazione di Atanasio era al colmo. Pensava rapire Lucietta e fuggire; gettarsele ai piedi, confessare il suo amore, domandarle il contraccambio e poi uccidersi; passare un giorno, un'ora di felicità con lei, e poi morire tutti e due. Contava i giorni. Ancora settant'ore, e poi il marito sarebbe ritornato; – e quella volta, prima che egli venisse, doveva compiersi qualche gran fatto; – lo aveva giurato a sè stesso, se lo veniva ripetendo le mille volte lungo la giornata; si diceva per incitarsi, per irritarsi vieppiù, che egli sarebbe stato un vile se al ritorno di Pietro le cose fossero rimaste come prima, ed egli avesse continuato a sopportare in silenzio lo spasimo della sua passione.

E mentre siffatta battaglia gli ruggiva nell'animo, egli rimaneva calmo, taciturno, e freddamente tutto disponeva come se fosse il più tranquillo uomo del mondo, perchè puntualmente fossero obbediti gli ordini del principale.

Non c'erano più che due giorni all'arrivo di quest'ultimo.

– Domani, – disse a sè stesso Atanasio, la sera, partendosi da Lucietta e corrispondendo con uno strano sguardo al gentile saluto ch'ella gli fece, mentre la si ritirava nelle sue stanze col suo bambinello in braccio: – domani tutto sarà finito. —

Girò per la campagna fino ad ora tarda con Azor dietro. Dopo mezzanotte arrivò all'osteria e si diede a picchiare furiosamente. Apertogli, entrò con passo concitato e comandò, secondo il solito, gli si recasse nell'usata stanzetta una mezza dozzina di bottiglie, tabacco, lume, e lo si lasciasse solo. Si chiuse dentro egli col suo cane. Nella sua testa, quella notte dovette avvenire una tempesta più terribile di quella che ci racconta Vittor Hugo aver tormentato il cervello di Jean Valjean nel più bello dei capitoli dei Miserabili. Al mattino uscì come le altre volte, ma si portò seco una bottiglia intiera di cognac.

Lavorò tutto il giorno, come se nulla fosse; Pietro doveva arrivare alla sera ed avrebbe trovato tutto disposto secondo i suoi ordini. Il metallo era in fusione nei forni e cominciava a gittar zampilli di fuoco da qualche commessura, come se impaziente di prorompere e precipitarsi nelle bocche appostate entro le escavazioni inferiori. Un calore d'inferno emanava da quel focolare incandescente, in cui il ferro era liquido come l'acqua. Atanasio esaminò tutto per bene, diede le ultime disposizioni; poi, venuto il momento di cessare i lavori, dato un fischio ad Azor che si teneva prudentemente lontano da quell'inferno, si diresse a passi lenti verso casa sua. Erano le sei; il treno di ferrovia per cui doveva giungere il padrone non arrivava che alle dieci, tutti gli operai erano chiamati per quell'ora, affine di riceverne gli ordini. Atanasio aveva quattro ore innanzi a sè.

Si recò a casa sua, e si vestì cogli abiti da festa. Canterellava fra sè co' denti stretti; ma doveva avere sulle sembianze la traccia dell'interno turbamento, perchè Azor sedutosi in un angolo della stanza lo guardava fiso in modo inquieto, con que' suoi occhi pieni d'intelligenza seguitandolo in ogni movimento.

Tratto tratto Atanasio si fermava, pensava, rifletteva come uomo che fa per ricordarsi qualche cosa, e poi, dato di piglio alla bottiglia del cognac ne tracannava giù due o tre sorsi abbondanti. Quando fu vestito come gli pareva meglio, diede un'ultima sorsata e maggiore delle altre al liquore, si mise la bottiglia in tasca e fece per uscire. Azor, solito ad accompagnarlo sempre, si alzò sollecito e corse alla porta per seguirlo.

– No, carino! – gli gridò l'operaio con istrano accento: – quest'oggi non si può: devi rimanere. —

Il cane non volle subito tirarsi indietro: il padrone impaziente gli diede un calcio che lo mandò a guaire sotto il letto; Atanasio era già fuor dell'uscio, quando si pentì del suo brutto tiro e tornò indietro.

– Azor! – chiamò con voce amorevole; e il cane venne strascinandosi colla pancia a terra, tutto umile, al suo cenno.

Atanasio lo prese fra le braccia e lo baciò.

– Chi sa se ti rivedrò ancora! – disse. – Sta' costì mio buon Azor, e Dio te la mandi buona. —

Lo pose sul letto e poi uscì correndo.

Trovò Lucietta, a cui disse voler parlare da solo a solo: aveva gli occhi stralunati, le mani e le labbra che tremavano; si vedeva chiaramente che l'infelice era fuori di sè.

“O mio Dio! che cosa è avvenuto!” domandò ansiosamente la moglie di Pietro, spaventata a quella vista. “Qualche grande disgrazia?”

Atanasio, come aveva sognato tante volte di fare, le si buttò in ginocchio ai piedi. Che cosa disse, non seppe mai egli stesso. Parlò come in delirio; e Lucietta, credutolo proprio assalito dalla follia, ebbe paura. Aveva essa fra le braccia il suo piccino e lo strinse al seno più forte e fece per fuggire. Il dissennato le impedì il passo.

“No, no,” esclamò egli, “ora il dado è tratto. Voi non mi potete lasciar più che dandomi la vita o la morte… Voglio che sia così… O mia, o di nessuno mai più!”

“Guardate quello che fate!” disse Lucietta. “Calmatevi; pensate al vostro amico, al vostro benefattore, a Pietro…”

“Ah! non parlatemi di lui:” esclamò Atanasio digrignando i denti.

In quella s'udì una voce chiamare dal cortile con allegra premura:

“Lucietta! Lucietta!”

Era Pietro, il quale, impaziente di rivedere la sua famiglia, arrivava col treno di due ore prima, per fare una sorpresa a sua moglie.

Atanasio si gettò indietro quasi spaventato; quell'omaccione forte e robusto come un Sansone, si pose a tremare come un fanciullo. Che cosa avrebb'egli detto a Pietro? che cosa fatto ora in presenza di lui? Pensò un momento scannare Lucietta, poi gettarsi sul marito che accorreva, e sul cadavere di lui uccidere sè stesso. Ebbe paura egli medesimo de' feroci impulsi della sua anima. Corse alla finestra e la spalancò, non si era che al piano terreno e all'altezza del terrazzo; si slanciò nella strada e corse via, per l'oscurità della notte già piena, come un forsennato.

Che cosa gli restava da fare? Agitò seco stesso la questione lungo tempo, senza decidersi a nulla. Quando suonarono le dieci, egli, come tratto da una forza fatale, si trovò al suo posto nella fonderia a capo degli altri operai.

– Lucietta gli avrà detto tutto, – pensava: – fra Pietro e me che cosa sta per succedere? —

VIII

Il principale era stanco del viaggio, preoccupato dal pensiero dell'esito della grossa, importantissima fondita che stava per essere gittata; oltre ciò, venuto colla speranza di vedere la moglie felicemente sorpresa e tutta lieta del suo anticipato arrivo, la trovò invece turbata di sì strana maniera, senza ch'ella ne volesse dire la cagione, che al suo primitivo buon umore era successa una stizza latente, la quale non cercava se non un'occasione per venir fuori e sfogarsi. Fu aspro con tutti, trovò che il combustibile non era stato abbastanza sollecitamente scaricato e riposto, gli parve che il fuoco nelle fornaci languisse; ebbe un rimprovero per ognuno, e, più che cogli altri, fu acerbo e severo con Atanasio.

– Sa tutto! – diceva fra sè quest'ultimo. – Or ora scoppierà la bomba: – ed accarezzava nella tasca il manico d'un coltello. – Meglio! Sono stanco di soffrire. La finirà una volta per tutte.

Pietro alzò la voce con accento imperioso.

“Avete udito tutti?” Disse dopo di avere ricapitolato le sue istruzioni. “Domani alle sei al posto… e guai chi manca!”

A quell'ora si sarebbero aperti i forni.

“A vegliare stanotte,” soggiunse, “rimarranno…” parve esitare un momento, e poi terminò la frase: “Atanasio e Girolamo.”

Erano il primo e l'ultimo degli operai. Atanasio saltò fuori dalle file.

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