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Mezzo secolo di patriotismo
Mezzo secolo di patriotismo

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Mezzo secolo di patriotismo

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Melzi, troppo altiero per scendere ad avversarj così minori di lui, si limitava ad offrire al Vicerè i suoi consigli, sempre assennati, ma non sempre accolti con quella serietà di propositi con cui erano dati. Egli vedeva le condizioni del Regno farsi sempre più gravi e ne avvertiva il pericolo. Fin dal 1811, più di 250 aggressioni a mano armata sulle pubbliche vie, più di cento invasioni nelle case private, con assassinj e ferimenti, dimostravano a che debole filo tenesse la pubblica sicurezza, il sintomo ordinario da cui si può giudicare il pregio di un governo.

Quando comincia la campagna di Russia, e il principe Eugenio deve partire per l'esercito, conducendo seco il fedele Méjean, le cure dello Stato ricadono forzatamente sulle spalle del Duca di Lodi, la cui corrispondenza col Vicerè e coll'Imperatore diventa più minuta e più frequente. E, quando giungono le prime notizie dell'immane disastro, che piomba nel lutto tante migliaja di famiglie italiane, Melzi non esita ad informare Eugenio della molta concitazione di animi che si manifesta a Milano e dell'avversione che comincia a destare una politica così spensieratamente ed ostinatamente guerriera.

In cosiffatte circostanze, le preoccupazioni del Vicerè si rivolgevano alla Corona di Ferro, e scriveva a Melzi (il 7 novembre 1813) che “se si dovrà evacuare il territorio e ritirarsi a Torino, incarichi Pino di recarsi a Monza e trasportare in salvo la Corona ferrea.„ Poi, da Verona (il 27 novembre) risponde agli avvisi di Melzi una lettera piena di amarezza, quantunque non priva di alti sentimenti. “Sono abbastanza sicuro del mio carattere per garantire che quelli che non avranno ferito che me non avranno motivo d'accorgersi che io mi sovvenga dei loro torti… Io meritavo meglio di quello che ho ricevuto… mi rimarrà, ne son certo, la stima degli uomini che, come voi, hanno potuto e voluto valutare le mie intenzioni e giudicare le mie azioni. L'opinione di questi mi basta12.„

Ma il vecchio uomo di Stato non s'illudeva più da assai tempo intorno alla crisi del sistema napoleonico. E invano l'imperatore gli scriveva da Parigi il 18 novembre (1813): “J'ai ici 800,000 hommes en mouvement et, quelque chose qui arrive, les Autrichiens ne resteront point maîtres de l'Italie13.„ Melzi accettava con rispettoso silenzio queste ultime confidenze del genio morente, ma non si lasciava avvolgere in quelle deliranti speranze.

Sicchè il 1.º febbrajo 1814, il principe Eugenio, che fronteggiava sull'Adige le schiere nemiche, riceveva dal Gran Cancelliere una lettera grave, che conteneva gravi consigli. Lo scongiurava a differire il richiamo dei figli unici nella nuova coscrizione militare “pour calmer la douleur des nombreuses familles qui y sont interessés.„ Gli pareva che importasse “dans l'heure qu'il est„ di allontanare “tout sujet de desagrément autant qu'il est possible, et de ne pas laisser à l'ennemi l'occasion de se concilier l'affection du peuple, en exécutant lui quelques jours après ce que nous aurions pu executer quelques jours avant14.„ Soggiungeva il Melzi: “l'expérience des mois passés nous a prouvé que sur dix hommes qu'on appelle, il y en a six ou huit qui deviennent réfractaires et grossissent la masse des assassins„; tanta era già divenuta la ripugnanza del popolo al servigio militare e tanta già l'impotenza amministrativa a renderlo obbligatorio! Nè alle sole questioni militari si limitavano i suoi consigli, ma sentendo già profondo anche il malcontento finanziario, gli suggeriva di condonare parecchie quote non soddisfatte di un prestito forzato che alcuni mesi prima, dal suo quartier generale di Caldiero, il Vicerè aveva decretato, e che il Melzi affermava “malissimo basato fin dal principio.„ Fu inutile. Stimolato dalle pressioni dell'Imperatore, Eugenio metteva la sua forza nell'obbedirgli, nel racimolare ad ogni costo, per le ultime sue disperate campagne, armi, denari, soldati.

Gli è in queste circostanze che avviene e si annuncia lo scroscio del sistema napoleonico. Desiderato da molti, previsto da pochi, questo scroscio è cagione per tutti di una incertezza che s'avvicina allo sgomento. S'era così avvezzi a girare intorno a quel sole! Il suo sparire dovette fare su quelle generazioni l'effetto che cagiona una caduta nel vuoto. Eppure l'Europa s'avanzava tutta in armi, accintasi a debellare un uomo; e le nazioni allibite non sapevano a chi confidarsi, tra quella fiumana di principi che, traendosi dietro un milione di soldati, parlavano un linguaggio novo di pace, di nazionalità, e quel colosso che si sprofondava in silenzio, guizzando lampi di gloria, tra le bufere scatenate dall'irrequieto suo genio.

Fu verso la metà d'aprile che giunsero a Milano e in Lombardia le prime notizie dei risultati finali della campagna del 1814 e della capitolazione di Parigi. E sotto l'impulso di quella gran commozione cominciò subito a svolgersi un dramma politico, che doveva finire, dopo tre giorni, in una così turpe tragedia.

Milano era rimasta, per la condizione delle cose, quasi priva di quelle forze complessive di governo che, nei momenti supremi, sono la guarentigia dell'ordine pubblico. I ministri erano uomini fiacchi, avvezzi alla continua e costante direzione che veniva da Parigi, incapaci di assumere responsabilità e iniziative pari alle nuove difficoltà. Le forze militari v'erano scarsissime e delle meno efficaci. Tutto l'esercito valido e validamente organizzato era stato naturalmente chiamato al campo sotto gli ordini del Vicerè. Al campo era il ministro della guerra, generale Fontanelli; e in Milano, oltre qualche drappello di dragoni e di veliti, erano rimasti i convalescenti, i picchetti di guardia e una quarantina di granatieri; più numerosa di tutti la Guardia Civica, forza equivoca ed oscillante nei giorni d'interno commovimento.

Il Vicerè poi, costretto dalle mosse combinate degli Austriaci e di Murat, s'era ritirato lentamente dall'Isonzo all'Adige, dall'Adige al Mincio, e, ridottosi in Mantova, aveva, al primo annuncio della catastrofe di Parigi, conchiuso col maresciallo Bellegarde l'armistizio di Schiarino-Rizzino, che fu sottoscritto il 16 d'aprile. Di questa Convenzione militare Eugenio aveva comunicato le basi fondamentali al Gran Cancelliere fin dal dì prima. Gli aveva scritto che ciascun esercito avrebbe mantenute le proprie posizioni, e che due deputati avrebbero dovuto portare ai Sovrani Alleati l'espressione dei desiderj di indipendenza e di buon governo. Gli suggeriva d'incaricare Prina, Fontanelli o Testi di siffatta missione, e raccomandava ad ogni modo che si scegliessero fra rappresentanti appartenenti alle due sponde del Po. Si offriva, se i due deputati fossero passati per Mantova, di dar loro commendatizie per l'imperatore Francesco.

Ma già fin dall'11 aprile i dispacci di Melzi rivelavano maggiori preoccupazioni e proponevano risoluzioni più radicali. Egli affermava necessario di convocare i Collegi Elettorali, far loro proclamare l'indipendenza del Regno, che, ratificata poi dal Senato, sarebbe divenuta una base forte e legale di riassetto politico anche in faccia alle potenze coalizzate15.

Questa iniziativa, afferrata allora con vigore pari alla previdenza, avrebbe probabilmente evitata la crisi milanese e reso possibile il regno indipendente d'Eugenio. Differita, fu, – come sempre avviene – impugnata come arma efficace dagli avversarj, e al 20 aprile la petizione pubblica per la riunione dei Collegi Elettorali divenne il pretesto della rivoluzione. Il principe Eugenio portava forse all'eccesso un sentimento generoso, quello della lealtà. Perciò non seppe mai prestarsi alle sollecitudini, atte, nel pensiero di Melzi, a rendergli negli ultimi giorni quella popolarità che la sua costante obbedienza all'Imperatore gli aveva fatto perdere, e che era pure così necessaria in quell'ora per le nuove combinazioni politiche. Ed era nel medesimo intento che Melzi aveva invano insistito perchè la Vice-regina, prossima al parto, rimanesse a Milano, invece di recarsi a Mantova. La sua presenza nella città, dov'era a tutti simpatica, era certamente una forza di governo, che il Gran Cancelliere, così privo di altre, considerava assai efficace. La nascita eventuale d'un principino, che sarebbe stato milanese fin dal primo giorno, avrebbe potuto disegnare il grato principio d'una soluzione avvenire; e ad ogni modo pareva al Melzi che, rimanendo la principessa Amalia in Milano, un gran freno ne avrebbero sentiti i propositi di violenza che già cominciavano a buccinarsi.

Ma a questi prudenti ed austeri consigli nessuno badava più. L'Imperatore avrebbe voluto che la Vice-regina andasse a Parigi per isgravarsi; il maresciallo Bellegarde le suggeriva Monza; Eugenio naturalmente la desiderava presso di sè, ed ella partì da Milano alla fine di marzo. Melzi non potè che esprimere schiettamente al Vicerè la dolorosa impressione che quella partenza aveva lasciato nella società milanese.

Nondimeno il duca di Lodi, vero uomo di Stato se mai ne fu, non rinunciava, per le debolezze o per le esitazioni di Eugenio, a quella che gli pareva la soluzione politica più favorevole agli interessi della sua patria. Teneva fiso lo sguardo alla monarchia nazionale sotto la famiglia Beauharnais, come all'unico modo di salvare un po' d'indipendenza e di libertà, frammezzo alla tempesta di cui tutti gli Stati d'Europa erano più o meno minacciati. Voleva quindi che, subito dopo firmato l'armistizio, Eugenio venisse a Milano. Sentiva crescere l'onda intorno a sè, e gli pareva d'essere solo a vederla, impotente, solo, a respingerla. “J'ai dû me convaincre (gli rispondeva il 17) que ces têtes sont dans une confusion inconcevable et tout-à-fait incapables de se mettre au niveau des circonstances; ceux-même qui ont voulu aider ont contribué plutôt à gâter les affaires16.„ Nè gli risparmiava, con franca parola, gli ultimi ammonimenti. “V. A. va devenir Italien, et Elle doit l'être uniquement, c'est la seule manière de réussir ici. En bon et fidèle serviteur je ne lui cache pas qu'en gardant ces Français autour d'Elle, Elle partagerait, sans la mériter, la haine qu'on leur porte17.„

Ma Cassandra era, come al solito, inascoltata, e l'ora della violenza giungeva. Abbandonato, o quasi, dal Vicerè, poco sorretto da ministri impreparati agli eventi, insidiato da rivalità occulte e da una polizia già scossa e pusillanime, il duca di Lodi si trovò soverchiato dall'audacia dei partiti politici, che dalla situazione della capitale, in momenti di un così grande sfascio d'autorità, traevano naturalmente un'influenza maggiore e più appassionata.

Per audacia e risolutezza d'intenti prevaleva il partito austriaco puro, di cui erano a un tempo gli stromenti e gl'inspiratori principali il conte Ghislieri, bolognese, e un conte Gambarana, pavese. Questi non avevano scrupoli; erano in corrispondenza diretta col principe di Metternich e col quartier generale austriaco; cospiratori innamorati di assolutismo, accettavano per ora la parte di delatori e di organizzatori d'una rivolta, la cui fine sanguinosa è lecito credere non fosse lontana dalle loro supposizioni.

Nel paese appartenevano a questo partito pochi signori tenaci di vecchio e nuovo legittimismo; di cui i più capaci e più noti erano il conte Alfonso Castiglioni e il conte Giacomo Mellerio.

Un'altra e più numerosa frazione dell'aristocrazia milanese si lasciava pure adescare da simpatie austriache, ma non scendeva a propositi di tumulti e di violenza. Erano uomini quieti, d'ordine, di affari, il vero partito conservatore religioso del tempo; aveva sopratutto nel Senato i suoi principali rappresentanti, il conte Diego Guicciardi e il conte Carlo Verri.

Contro questi stavano i così detti Italici, nobili e borghesi che s'erano, per varie cagioni, non tutte politiche, inaspriti col Vicerè, e che speravano trovare, nello sconvolgimento europeo, una forma di governo che rispettasse l'indipendenza del regno d'Italia, mutandone il capo. Non erano però d'accordo sulla sostituzione, com'erano d'accordo sulla negazione. Alcuni avrebbero volontieri veduto succedere all'odiato Beauharnais un altro personaggio franco-italiano, Gioachino Murat; altri fantasticava un re nazionale nel generale Domenico Pino, a cui la vanità naturale e l'esempio dei marescialli francesi non lasciava forse parere affatto assurda la speranza di una corona. Le frazioni politiche del partito accarezzavano soluzioni diverse; l'una accettava un principe austriaco, con separata costituzione pel Regno; l'altra aveva posto gli occhi sopra un principe inglese, il duca di Chiarenza, il secondo dei dodici figli di Giorgio III, e sperava con ciò di attirarsi la protezione e le simpatie di lord Castelreagh, l'onnipotente diplomatico della coalizione europea. Nè mancavano, come vedremo più tardi, altri progetti più serj, ma piuttosto individuali che di partito.

I personaggi più attivi fra questi gruppi erano senza dubbio il conte Federico Confalonieri e l'avv. Traversi; ma l'uno, aristocratico altiero e liberale, carattere rigido e forte, uomo d'istinti piuttosto che di combinazioni, camminava per la sua via, mosso da una vivace ambizione personale che non si disgiungeva da un alto sentimento di patria, accettando alleanze piuttosto che ricercandole; l'altro, vecchio ed astuto mestatore d'affari, volgare d'animo come d'ingegno, stretto in solidarietà di intrighi politici con una moglie avida di ricchezze e di onori, commensale e nel tempo stesso insidiatore del ministro Prina, non aveva ripugnanze nè di mezzi, nè di scopi, nè di alleati; e pare che su lui principalmente ricada la responsabilità di cupi accordi col conte Gambarana, mediante i quali, Austriaci ed Italici lasciarono poi tacita libertà di tumulto all'orda sanguinaria del 20 aprile.

Un quarto o quinto partito caldeggiava invece la nomina del principe Beauharnais, sottraendolo come sovrano indipendente ad ogni vincolo verso la Francia o verso la famiglia del vinto Imperatore. Era il partito di gran lunga men numeroso e pochissime aderenze noverava tra i nobili milanesi. Aveva l'esercito per sè, ma l'esercito era lontano, e subiva, quantunque valoroso, l'umiliazione della sconfitta. Aveva per sè i ministri, ma erano uomini impopolari, e perchè di un passato troppo ligio all'Imperatore e sopra tutto, bisogna dirlo, perchè estranei a Milano, essendo modenesi il Luosi, il Vaccari, il Veneri, bolognesi l'Aldini e il Marescalchi, novarese il Prina. L'autorità maggiore a questo partito veniva dal Cancelliere Guardasigilli, il duca Melzi d'Eril, uomo che naturalmente a tutti sovrastava per la grandezza della situazione personale, per la integrità del carattere, per la lunga e profonda esperienza delle cose di Stato. Sgraziatamente, l'abbiamo già detto, l'influenza del duca di Lodi sopra i suoi concittadini era sminuita; lo vedevano poco e lo avevano facilmente dimenticato; ai giovani pareva troppo vecchio, ed ignoravano che nelle questioni politiche l'età giovanile è piuttosto feconda di impeti che di energie.

Infatti fu da questo vecchio acciaccoso e solitario che partì la prima iniziativa virile, in tanta disgregazione di propositi; una iniziativa, che, se fosse stata secondata dalla fiducia pubblica come era stata concepita dal privato intelletto, avrebbe probabilmente dato alle sorti del regno italico quella forma d'indipendenza che invano si fantasticava per altre vie.

La sera del 16 aprile, un avviso di convocazione chiama il Senato ad una seduta straordinaria pel giorno dopo. Si buccina per la città che trattasi di un messaggio del duca di Lodi per invitare il principe Eugenio ad assumere il titolo di Re d'Italia. La notizia commove gli animi e dà la stura all'agitazione dei partiti. Gli ostili si rinfocolano nelle ire, contestano la competenza del Senato, deplorano, colla consueta ipocrisia dei partigiani, la sorpresa di siffatta convocazione. Quasichè la sorpresa maggiore non venisse dalla capitolazione di Parigi e quasichè in politica la peggiore delle sorprese non fosse quella di lasciarsi sorprendere!

I senatori, di ogni partito, accorrono numerosi, e il presidente, conte Veneri, raccomandando il segreto sugli oggetti posti all'ordine del giorno, dà comunicazione al Senato del messaggio di Melzi.

Questi proponeva, dopo gli opportuni preamboli, che il Senato inviasse all'imperatore d'Austria una deputazione, coll'incarico di richiedere la sua mediazione presso le potenze alleate, affinchè: 1.º cessassero tutte le ostilità nel territorio italiano; 2.º fosse consacrata e riconosciuta l'indipendenza del Regno; 3.º fosse riconosciuto Re il principe Eugenio, le cui virtù e la cui onorata condotta avevano meritato l'amore del popolo e la stima dell'Europa.

L'iniziativa di Melzi era piena di avvedutezza politica. Sapeva egli, per le sue vaste relazioni personali, che l'imperatore Alessandro di Russia era favorevolissimo al Beauharnais18. Rivolgendosi direttamente all'imperatore d'Austria, metteva questi nella necessità di consultare il suo imperiale alleato; il cui sicuro consenso rendeva poi difficile all'Austria di accampare per proprio conto pretese territoriali. D'altronde, una deputazione consimile stava per partire, in nome dell'esercito, secondo uno dei patti dell'armistizio conchiuso il giorno 16 col maresciallo Bellegarde. Questa doppia dimostrazione, che avrebbe additata una completa concordia degli elementi civili e militari del Regno in favore del principe Eugenio, non poteva non fare una grande impressione sui governi alleati, compromessi dalle loro magniloquenti dichiarazioni di rispetto per la nazionalità e l'indipendenza degli Stati. E finalmente, approfittando subito della simpatia che aveva destato la condotta leale ed onesta del Vicerè, in confronto di quella subdola ed ambiziosa del re di Napoli, si rendeva più facile che, data la disposizione delle potenze a conservare in Italia almeno una delle dinastie uscenti dalla famiglia napoleonica, la scelta cadesse piuttosto su quella di Beauharnais che su quella di Murat.

In un paese che avesse serbato, insieme col desiderio vago dell'indipendenza, un concetto serio e giusto delle situazioni politiche, il programma di Melzi avrebbe dovuto trovare un incoraggiamento larghissimo nel paese ed una votazione unanime fra i suoi rappresentanti. Ma non fu così. Svegliatosi per le questioni di materiale interesse, l'intelletto del paese s'era attutito circa le questioni di Stato. Il dispotismo napoleonico aveva irrigidito ogni elasticità di pensiero pubblico. Gli uomini politici erano spariti; non erano rimasti che degli amministratori e dei legulej.

L'opposizione scattò subito, dopo finita la lettura del messaggio di Melzi; e ne fu l'oratore più autorevole e più accanito il conte Diego Guicciardi.

Quest'uomo, già s'è detto, aveva riputazione di essere nel Senato il capo del partito austriaco; n'era effettivamente al di fuori uno dei capi. Però non bisogna credere che allora questa denominazione avesse il significato odioso e antinazionale che ebbe più tardi. È una delle abitudini che rendono più confusa la storia e più difficile l'indagine critica quella di attribuire parole di un'epoca a fatti di un'altra. Si creano delle storpiature morali, non dissimili da quelle di cui si renderebbe colpevole un artista che dipingesse Cleopatra col guardinfante o Carlo Magno colla parrucca di Luigi XIV.

A settant'anni di distanza, poche pagine possono essere utilmente impiegate a delineare la fisonomia di un uomo che fu tra i più operosi e i più influenti del tempo suo.

Ambizioso quanto attivo e sagace, fertile nelle difficoltà politiche di espedienti e di transazioni, ricco d'ingegno più che di cultura, di una esperienza d'affari da pochissimi superata in quei giorni, il Guicciardi s'era mescolato di buon'ora ai pubblici negozi, e sotto tutti i regimi aveva tenuto un posto importante.

Nato a Ponte, in Valtellina, era stato fino dai primi anni spettatore della sordidissima dominazione che i Grigioni esercitavano sul suo paese. Ne divenne tra i più caldi a volerne scuotere il giogo, e concepì il pensiero di allacciare con solidi nodi alle provincie italiane della sottoposta valle del Po, una provincia rimasta fino allora pressochè digiuna di tradizioni italiane, sebbene teatro di lunghe ed acerbe lotte, combattute, pel dominio d'Italia, da Svizzeri, da Francesi, da Spagnuoli, da Tedeschi. Quel pensiero lo seguì per tutta la vita e poteva certo bastare, in tempi così agitati, ad occupare tutte le facoltà di una mente attivissima.

Le rivolture cisalpine del 1796 fornirono ai patrioti valtellinesi la cercata occasione di sottrarsi al vassallaggio d'oltr'Alpi; e fu principalmente per le influenze del Guicciardi che il generale Bonaparte aderì allora ad emancipare la Valtellina, Chiavenna e Bormio, dichiarando quei territori irrevocabilmente uniti alla Repubblica Cisalpina.

D'allora potè datare il Guicciardi l'ingresso nella vita politica più larga e più attiva. Piacque dapprima a Bonaparte, gran nemico degli ideologhi, che ne fece un ministro dell'interno, per controbilanciare il vuoto frasario demagogico degli amministratori cisalpini. Ai Comizi di Lione, il Guicciardi fa, dopo il Melzi, nominato direttamente dal Primo Console come Segretario di Stato della nuova Repubblica Italiana; onore diviso unicamente con quell'altro eminente magistrato che fu il Gran Giudice, Spanocchi.

Nè fra così alte vicende obliava il Guicciardi gl'interessi della sua provincia nativa, a cui seppe mantenere, contro ogni sforzo di emule diplomazie, l'irrevocabilità dell'annessione italiana. Questo affetto di montanaro ostinato spiccava anzi nel Guicciardi così evidente, che partecipandogli l'alto grado a lui conferito, Bonaparte credeva necessario di scrivergli: “vous n'appartenez plus à aucun département. N'ayez jamais en vue que l'interêt et la politique de la République entière„19.

Melzi non amava Guicciardi, e non lo nascondeva. Sicchè, fattisi difficili i loro rapporti personali. Napoleone collocò Guicciardi alla Consulta di Stato. Ma costituitosi poco dopo il Regno d'Italia, lo volle ritornato a capo di un dicastero, e gli affidò la direzione generale della Polizia. Bisogna dire, ad onore del Guicciardi, che in tali funzioni egli non seppe interamente prestarsi alle sfrenate volontà del sovrano. Uomo pratico, voleva la moderazione; uomo onesto, voleva la legge. Onde scadde dalla fiducia dell'Imperatore, che gli tolse la Direzione della Polizia e gli inflisse, con metodo imitato spesso dappoi, la dignità di senatore del Regno.

Voltandosi all'Austria, contro il sistema francese, Diego Guicciardi non poteva dunque dirsi nè un ingrato, nè uno spensierato. Aveva servito con zelo il governo da cui era stato beneficato. Caduto quello, ricuperava il sentimento della sua indipendenza politica, e credette scorgere nell'Austria, vale a dire nel più forte dei governi allora segnalati sull'orizzonte, la sola potenza capace di guarentire i due scopi politici che gli erano cari: il mantenimento della Valtellina nel regime lombardo ed una libertà onesta pel Regno. L'avvenire ha dimostrato che s'ingannava almeno per metà. Ad ogni modo, la sua evoluzione politica suscitò allora e mantenne intorno al suo nome fino agli ultimi tempi un ambiente di sfiducia, a cui s'ispirarono con troppa ingiustizia alcuni scrittori contemporanei. Dopo l'avversione del Melzi, incontrò quella del Marescalchi; e irosamente ostile gli fu sopra tutti Ugo Foscolo, che lo chiamava con suo sarcasmo: l'uomo valtellinese, e che avrebbe dovuto, più d'ogni altro, essere indulgente verso le debolezze dell'epoca.

In realtà, il Guicciardi, che tante antipatie s'era nella vita pubblica ingrossate contro, aveva fra le pareti domestiche riputazione di animo buono e probo, cui sempre giustificarono legami di affetto famigliare vivi e durevoli. Ma il Guicciardi era figlio del suo tempo ed aveva subìto, non corretto, l'ambiente in cui era vissuto. La mobilità degli eventi, avendo educato tutta la generazione sua ad un certo scetticismo utilitario, – che ora torna di moda, – non gli permise di mostrare, nella sua vita pubblica, ciò che si è convenuti di chiamare carattere; ma sarebbe ingiusto affermare, col Foscolo, che in quella non si fosse proposto se non utili individuali. No, il Guicciardi aveva il sentimento del paese, il concetto della vita politica. Non gli sacrificava con larga generosità le sue convenienze personali e famigliari, ma non può dirsi che abbia cercato queste a ritroso della sua coscienza di uomo pubblico.

Gli è che il Guicciardi non poteva propriamente dirsi un uomo moderno. Per l'educazione, per le tradizioni, per le necessità degli eventi contro cui ebbe a lottare, egli apparteneva a quella scuola di statisti italiani, che dal Macchiavelli, dal Morone, da Vittorio Amedeo avevano imparato l'evoluzione dei metodi come unico avviamento ai successi del bene. La saldezza delle convinzioni politiche, divenuta, sotto l'influenza dell'odierno liberalismo, quasi guarentigia e sinonimo della onestà degli uomini pubblici, non poteva sembrare qualità egregia di governo in tempi, in cui contro la prepotenza dei dominatori unico schermo era l'astuzia, ed unica preoccupazione quella di assicurare quanto più si potesse delle vite e delle sostanze dei sudditi contro l'imperversare delle mutabili tirannie. Onde accadeva sovente che uomini di rette intenzioni e di vita illibata serbassero, nei loro rapporti politici, andamenti così incerti e così brusche mobilità, da eccitare la riprovazione di chi non abbia l'indulgenza, naturale allo storico, per le incoerenze di cui ogni epoca è necessariamente feconda.

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