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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta
Diego Garcia, che non si sentiva veramente vivo se non quando stava o nel calor d'una mischia o parlando di menar le mani, non capiva in sè dall'allegrezza nel sentir questi preliminari d'una sfida, che sarebbe senza dubbio stata combattuta e contrastata con tutto l'accanimento che può inspirare l'onor nazionale; ed alzando il capo e la voce, e battendo insieme due mani che sarebbero state bene al braccio di Sansone, gridò:
– Le vostre parole, cavalieri, sono degne d'uomini d'onore, e di soldati pari vostri, e son sicuro che i fatti non saranno inferiori. Vivano sempre i bravi di tutte le nazioni! Ed in così dire, imitato dagli altri, alzò il bicchiere, e tutti con grande allegrezza lo votarono più d'una volta in onore de' futuri vincitori. Calmato un poco il romore, Inigo soggiunse:
– L'ingiuria che voi fate al valore italiano, messer cavaliere, non è cosa che i miei amici vorranno passar così di leggieri, nè terminar col rompere d'una lancia, come se si trattasse di aver il pregio d'una giostra. Non parlo per ora del numero de' combattenti: questo si fisserà d'accordo fra le due parti; ma qualunque sia per essere, offro a voi ed ai vostri battaglia a tutte armi ed a tutto sangue, finchè ogni uomo sia morto, o preso, o costretto ad uscir del campo. Accettate voi questi patti?
– Gli accetto. —
Fermato così l'accordo, nè rimanendo per allora altro da aggiungere, le fatiche del giorno e l'ora tarda consigliarono ad ognuno il riposo. La brigata si alzò da tavola di comune consenso; ed uscita dall'osteria, s'andò sciogliendo a mano a mano, riducendosi ciascuno al proprio alloggiamento. I baroni francesi furono onorevolmente trattati, ed ebbero stanza dagli uomini d'arme che gli avean fatti prigioni. Crediamo di poter asserire, che malgrado le bravate colle quali aveano mostrato tener gli Italiani in sì poco conto, un intimo senso, ed in molti l'esperienza gli avvertiva, che a voler uscir ad onore da quest'impegno, bisognavano però più fatti che parole. Inigo anch'egli, benchè fosse più che certo del valore de' suoi amici, e che per la gloria delle armi italiane sarebbero venuti a paragone con tutto il mondo, riflettendo che gli avversarj erano pur gente da guerra di grandissimo conto, e le migliori spade dell'esercito francese, non poteva non istare in pensiero del fine che avrebbe avuta quest'importante faccenda. Infatti La Motta ed i suoi compagni erano uomini da star a fronte di chicchessia. Le loro prodezze nell'armi erano conosciute da tutte le soldatesche d'allora; e nelle squadre francesi v'erano moltissimi altri non inferiori nè in coraggio nè in perizia, ed il famoso Bajardo, per dirne uno, bastava solo ad aggiungere gran peso nella bilancia.
A malgrado di queste riflessioni l'altero Spagnuolo non si pentì un momento d'averla presa per gl'Italiani, e pensò che avrebbe troppo mancato sopportando che l'insolente prigione dicesse tanti vituperj di coloro che non li meritando erano poi suoi amici ed assenti: e come, disse fra sè, potrebbe esser vinto chi combatte per l'onor della patria? Così rinfrancato l'animo, si dispose la mattina seguente a conferire di ciò con Fieramosca, ed usare ogni cura onde la cosa riuscisse ad onore della parte che avea tolto a proteggere; e pieno di questi onorati pensieri, stette, senza molto dormire, aspettando l'ora di metter mano all'impresa.
CAPITOLO TERZO.
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La rocca di Barletta occupata da Consalvo e da parecchi capi di quell'esercito era posta fra la piazza maggiore della terra ed il mare. Nelle case all'intorno eransi allogati a mano a mano tutti gli ufficiali spagnuoli ed italiani col loro seguito; e fra questi, in una delle migliori abitazioni, i fratelli Prospero e Fabrizio Colonna facevan dimora col sontuoso traino di scudieri, famigli e cavalli, che ad una tanta casa si conveniva. Ettore Fieramosca era loro carissimo sovra ogni altro per mille suoi pregi, e se lo tenevano qual figlio, avendolo accomodato d'una casetta che era presso la marina, attigua alle loro stanze, la quale agiatamente poteva contener lui ed i servi coi cavalli e le bagaglie. La camera più alta della casa, ove solea dormire, avea le finestre volte a levante.
Era l'indomani della cena: il primo chiarore dell'alba faceva appena all'orizzonte distinguere dal cielo la bruna linea del mare, quando il giovane Fieramosca, lasciato il letto ove non sempre trovava sonni tranquilli, uscì su un terrazzo, a' piedi del quale venivano a batter l'onde leggermente agitate dal fresco venticello della mattina.
Poveri abitanti del settentrione! Non sapete quanto valga quest'ora sotto un bel cielo del mezzogiorno, in riva al mare mentre la natura è ancora tutta nel sonno, e questo silenzio viene appena interrotto dal sordo gorgoglìo dell'onda, che al pari del pensiero, non ebbe mai riposo dal dì che fu creata, nè l'avrà finchè più non sia. Chi non s'è trovato solo a quest'ora, chi non ha sentito sventolarsi presso il viso l'ultimo batter d'ala della nottola matutina nel principiar del caldo sulle belle coste del regno, non sa sin dove giunga la divina bellezza delle cose create.
Lungo il muro del terrazzo cresceva una palma. Seduto sul parapetto, le spalle appoggiate al tronco, e colle mani intrecciate reggendosi un ginocchio, il nostro giovine soldato stava godendo momenti di quiete, e l'aria pura che precede l'aurora.
La natura gli aveva concesso il prezioso dono d'esser per indole propria spinto a quanto v'ha di bello, di buono e di grande. Un solo difetto si poteva apporgli, se difetto si può chiamare, una soverchia bontà. Ma nudrito da' primi anni fra l'armi, presto conobbe gli uomini e le cose; la sua mente retta nel giudicare imparò qual limite si debba porre alla bontà stessa onde non degeneri in debolezza; e la rigidità che acquista sovente chi si trova fra continui pericoli, in un cuore quale era il suo, divenne una giusta fermezza, degna e preziosa dote d'un petto virile.
Il padre di Fieramosca, gentiluomo capuano della scuola di Braccio da Montone, invecchiato nelle guerre che lacerarono l'Italia durante il secolo XV non potè dare ad Ettore altro che una spada, e questi da giovanetto credette il mestier dell'arme il solo degno di sè, nè potè per molti anni aver pensieri superiori ai tempi in cui viveva, nei quali la forza dell'armi non s'impegnava che ad accrescere la riputazione e l'avere.
Ma crebbe il senno col crescer dell'età; e ne' brevi momenti che si restava dal guerreggiare, invece di spender l'ozio in cacce, in giostre ed in altri giovanili piaceri, ebbe cari gli studi e le lettere; e conosciuti gli antichi autori, e gli onorati fatti di coloro che avevano sparso il sangue in pro della patria e non in vantaggio di chi meglio li poteva pagare, comprese quanto scellerata cosa fosse per sè stesso il mestier dell'arme, se a guisa di masnadiere si faccia col solo fine d'arricchirsi delle spoglie dei deboli, e non per la virtuosa cagione di difendere sè ed i suoi dalle straniere aggressioni.
Nella sua prima adolescenza avea dovuto seguire il padre, che importanti affari chiamavano in Napoli. Alla corte di Alfonso conobbe il celebre Pontano, il quale, colpito dall'ingegno del fanciullo e dalla bella disposizione del suo corpo, gli pose grandissimo amore; ed accoltolo nell'accademia che, quantunque fondata dal Panormita, ha però il nome di Pontaniana, prese ad ammaestrarlo con grandissimo studio, e riportò, in contraccambio, dal giovane quel culto affettuoso che produce la gratitudine unita all'ammirazione.
L'amore per le cose patrie e per la gloria italiana risvegliato dalle eloquenti parole del suo maestro, non poteva rimaner tepido in un cuore qual era il suo, e crebbe al punto di giungere al furore. Combattè spada a spada con un gentiluomo francese, giovane maggior di lui d'anni e di forze, perchè sparlava degl'Italiani, lo ferì e gli fece confessare il suo torto, presente il re e la corte. Lasciata Napoli, dopo varie vicende, incontrò i casi d'amore dei quali avemmo un cenno dal prigioniere francese.
Ma allorchè da Carlo VIII fu messa sossopra l'Italia, e che l'armi francesi la tenevano tutta in ceppi od in timore, si risvegliò in lui più caldo l'amor patrio, vedendo quegli invasori voler farla da padroni in Italia. Si rodeva udendo narrare le loro insolenze nell'attraversare la Lombardia, la Toscana e gli altri Stati italiani. Quando si sparse la fama della fiera risposta di Pier Capponi al re, e che questi aveva ceduto, sfavillava per l'allegrezza portando alle stelle il valoroso Fiorentino.
Caddero i reali di Napoli. Parve allora a Fieramosca di seguir la parte di Spagna, per opporsi in qualche modo all'altra di troppo crescente potenza, e perchè l'orgoglio spagnuolo gli sembrava meno insoffribile della vana jattanza francese: poi un nemico che non poteva venire se non per mare, gli parea da tenersi in minor conto; e stimava quando colle sue armi fossero cacciati i Francesi, impresa meno malagevole stabilire un buono Stato in Italia.
Al chiarore che si diffondeva dall'oriente svanivano a poco a poco e si perdevano l'ultime stelle. Già il sole illuminava le più alte cime del Gargano tingendole d'un roseo che si mutava in pavonazzo ne' seni ombrosi dei monte, mentre il lido sottoposto, che girava a guisa di mezza luna, congiungendosi al littorale ov'è posta Barletta, mostrava col giorno crescente un ameno e diverso intreccio di valli e di colli che scendevano a bagnarsi nel mare. I folti castagneti che sulle vette già venivano indorati dal sole, diradandosi verso le falde eran interrotti ora da prati verdissimi, ora da qualche pezzo coltivato. Qua una frana lasciava biancheggiar il macigno, là il fianco d'un giogo si tigneva di colori gialli, rossicci, secondo la natura del suolo. Il mare ceruleo pareva immobile; se non che ribollendo sotto le rupi ne cingeva il piede con una striscia di spume candidissime.
Nella parte più interna del golfo sopra un'isoletta che era congiunta alla terra da un ponte lungo e stretto, sorgeva fra le palme e i cipressi un monastero con una chiesuola ed un campanile, munito all'intorno di torricelle e mura merlate, onde salvarlo da un primo assalto di corsari e di Saracini.
Ettore mostrava guardarlo con passione grandissima, aguzzando le ciglia, perocchè la nebbia, che a quell'ora copre le terre più basse, gli permetteva appena distinguere i contorni dell'edifizio. Coll'orecchio teso coglieva il debol suono della campana che annunciava l'avemaria del giorno, ed era tanto attento che non udì la voce d'Inigo, dal quale era chiamato in cortile: questi non ottenendo risposta, salì.
– Dopo una giornata come quella di ieri – disse entrando sul terrazzo – non ti avrei creduto alzato prima del sole. —
Chi ebbe mai pieno il cuore d'un solo pensiero grande e bollente, sa quanto potè esser grato a Fieramosca il venir colto in quello e costretto a lasciarlo. Si volse con un viso che non celava l'animo suo interamente, e quasi Inigo s'avvedea d'esser giunto importuno. Ma l'animo d'Ettore era troppo giusto ed amorevole per accagionare il suo amico di questo disturbo involontario. Senza dar risposta precisa, se gli fece incontro, gli strinse la mano, ed alla fine ritornando in sè del tutto disse piacevolmente:
– Che buon vento mi ti conduce a quest'ora?
– Ottimo vento; e ti reco tal nuova che m'avrai da dar la mancia. Perciò appena ho aspettato il giorno, ed eccomi a portartela. Sempre ho avuto invidia alla tua virtù: oggi debbo averla alla tua fortuna. Beato te, Ettore mio! T'è serbata dal cielo tal impresa d'onore che l'avresti comprata, son certo, ad alto prezzo. Ebbene ti capita innanzi senza nè spesa nè fatica. Sei proprio nato vestito! —
Fieramosca condusse in casa il suo amico, e fattoselo sedere in faccia stava aspettando che gli annunziasse questa gran fortuna. Fu da lui brevemente informato di quanto era occorso la sera innanzi, del modo col quale egli avea preso le parti degl'Italiani, e della sfida proposta. Quando venne a riferire le insolenti parole di La Motta, e benissimo le seppe dire, balzò in piedi l'animoso Italiano, percotendo su una tavola col pugno chiuso e cogli occhi scintillanti di fierissima allegrezza.
– Non è – gridò – giunta a tanto ancora la miseria nostra che manchino braccia e spade per ricacciare in gola a questo ladrone francese, quanto in malora sua gli è fuggito di bocca! E Dio ti benedica la lingua, Inigo, fratel mio (e stretto lo teneva abbracciato), e t'avrò obbligo eterno della cura che avesti dell'onor nostro, nè in vita nè in morte me ne terrò sciolto mai. – E le carezze per una parte, come le profferte per l'altra, non avean fine. Quietato un poco questo primo calore:
– Qui – disse Fieramosca – è tempo non di parlare, ma d'operare. – E chiamato un servo, mentre l'ajutava vestirsi, veniva nominando i compagni che si sarebber potuti sceglier a quest'impresa, pensando far grossa compagnia più che potesse.
– Molti – diceva – sono i buoni fra noi, ma la cosa troppo importa; scegliamo i migliori: Brancaleone. E uno. Non vi sarà lancia francese che lo pieghi d'un dito, con quel pajo di spalle che ha ai suoi comandi. Capoccio e Giovenale tutti e tre Romani: e ti so dire che gli Orazi non tenevano la spada in pugno meglio di loro. E tre. Andiamo avanti: Fanfulla da Lodi, quel matto spiritato, lo conosci? (Inigo alzò il viso aggrottando un poco le ciglia, e stringendo le labbra, come fa chi vuoi ridarsi a mente qualche cosa.) Oh lo conosci senz'altro! Quel Lombardo, lancia spezzata del signor Fabrizio… quello che l'altro giorno galoppava sulla grossezza del muro del bastione alla porta a San Bacolo…
– Oh sì sì! – rispose Inigo – ora mi ricordo.
– Bene. E quattro. Costui finchè avrà le mani le saprà menare. Io sarò il quinto; e coll'ajuto di Dio farò il dovere. Masuccio – gridò chiamando un famiglio – bada che ieri si ruppe la guiggia dello scudo, falla aggiustare, e tosto; senti: alla spada grande ed alla daga pistolese sia rifatto il filo, e… che volevo dirti?.. ah! L'arnese mio di Spagna è in punto? – Il servo accennò di sì.
Sorridendo Inigo a questa furia disse: – Non ti mancherà tempo a metterti in ordine, che la battaglia non sarà nè oggi nè domani. —
A questo non pensava Fieramosca che si sentiva la febbre addosso, nè avrebbe voluto tardare a trovarsi alle mani; e poco badando a quanto dicea lo Spagnuolo, veniva rintracciando altri compagni, chè cinque gli parea un numero scarso. E disse con gran voce:
– E dove lasciamo Romanello da Forlì? E sei. Lodovico Benavoli. Sette. Questi li conosci, Inigo: gli hai veduti a lavorare.
– Masuccio, Masuccio! —
Ed il servo che era sceso risalì di volo.
– Il mio cavallo da battaglia, Airone, quello che m'ha donato il signor Prospero, abbia paglia ed orzo quanto ne vuole; e prima che entri il caldo lo farai trottare alla volta un'ora, e vedi come gli stiano i ferri. —
Nel dare questi ordini si stava vestendo; il servo gli porse la cappa, e messasi l'arme accanto ed in testa un cappello con una penna azzurra, disse ad Inigo:
– Son teco. Prima d'ogni altra cosa si vuol ragionare col signor Prospero, poi si farà motto a Consalvo pel salvocondotto. —
Così avviatisi per istrada seguiva nominando or l'uno or l'altro degli uomini d'arme che potessero fare al caso. Nè si soddisfaceva d'alcuno così alla prima: di tutti esaminava minutamente lo stato, le forze, il valore, la vita passata, onde non venissero a sì gran fatto se non uomini provati. Di Brancaleone romano teneva gran conto sopra ogni altro, perchè lo conosceva molto uomo dabbene, di gran core e di maravigliosa gagliardia; gli piaceva il suo fare serio ed alieno dall'allegria spensierata degli altri compagni, e sentiva per lui un'amicizia, che molte volte l'aveva condotto al punto di svelargli i suoi casi colla Ginevra: ma un certo ritegno, e forse la mancanza di occasione a proposito, l'avean impedito. La sua famiglia e gli antichi suoi essendo stati ghibellini avevano a Roma tenuta sempre la parte colonnese, ed ora nella compagnia del signor Fabrizio egli era capo di certe lance spezzate, e molto bene attendeva a questa come ad ogni altra bisogna di guerra. Era costui di mezzana statura, largo di spalle e di petto, di poche parole, e solo intento al suo uffizio: tenace ed ostinato nel seguire ogni suo divisamento, e non avendo al mondo altro pensiero che quello d'ajutare e far vittoriosa la sua parte colonnese, a petto della quale tutto a lui pareva nulla; per sostener questo come ogni altro impegno si sarebbe fatto tagliare a pezzi mille volte.
Ettore ed Inigo doveano passar davanti all'uscio suo per andare dai Colonna: lo trovarono appunto fermo che dava ordine a certi suoi cavalli, e colla spada scinta, avvolta la cintura all'elsa accennava ai famigli ed ai ragazzi di stalla, facendosi intendere colla minore spesa di fiato che fosse possibile. Fieramosca l'invitò seco per ordinare tal faccenda, che, espressa con parole caldissime, fu ascoltata da Brancaleone senza scomporsi, nè mutar viso. Disse solo brevemente avviandosi cogli altri due:
– La prova fa credere i ciechi. Quattro stoccate a modo mio e poi ci riparleremo. —
E questa fiducia non era braveria: chè più volte già s'era trovato chiuso in campo franco, e sempre n'era uscito ad onore.
CAPITOLO QUARTO.
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Le ingiuriose parole di La Motta e la disfida che n'era stata la conseguenza, corsa in presenza di più di venti persone, non poteva esser rimasta segreta, e n'era oramai sparsa la fama per tutto l'esercito e per la città. Inigo, coi due Italiani, presentandosi alla casa di Prospero Colonna, trovarono che quivi non era altro discorso; e già cominciava a comparire il fiore della gioventù italiana, che a lui concorreva come a suo capo, per intendere in che modo s'avessero a governare. Vennero ad uno ad uno tutti quelli che avea nominati Fieramosca, e molti altri; sicchè in breve spazio di tempo furono una cinquantina. Le parole erano molte e grandi, ed ognuno mostrava negli atti e nel volto quanto gli cuocesse l'ingiuria ricevuta. Parecchi fra gli Spagnuoli che la sera innanzi s'eran trovati a cena, e che avean fatto motto ai loro amici italiani, si erano qui condotti, e si mescolavano fra loro ripetendo or questa or quella delle parole tanto d'Inigo quanto dei prigionieri, e facendo osservazioni, proponendo partiti, o citando esempj, attizzavano un fuoco che già troppo bene ardeva per sè medesimo.
Questa brigata stava, parte per la soglia del portone e dispersa nel cortile, parte in una sala terrena, ove i fratelli Colonna solevano dar retta ai loro uomini quando bisognava, e sbrigare gli affari della compagnia. Vi splendeano appese al muro le loro armature messe d'oro molto riccamente, con finissimi intagli, forbite e lustranti come specchi. Si guardava in questo luogo la bandiera della compagnia sulla quale era ricamata la colonna in campo rosso, col motto Columna flecti nescio, la quale pure si vedeva dipinta sugli scudi, che coll'altr'arme disposte convenevolmente all'intorno occupavano quasi tutte le pareti. In fondo due cavalletti grossi di legno sostenevano l'intere armature de' cavalli con loro selle e gualdrappe di bel velluto cremesi, fregiate dell'impresa di loro casato, e le ricche briglie tutte ornate di ricami d'oro, degne di tanto onorati signori.
Sei falconi incappellati e legati ad una catenella d'argento eran posati sopra una stanga in traverso ad una finestra, con un monte di attrezzi da caccia, della quale era frequente l'uso fra la nobiltà, e si teneva proprio spasso dei signori e de' gentiluomini.
Dopo alcuni momenti comparve sulla porta il signor Prospero Colonna, al quale ognuno fece luogo e riverenza; ed egli venuto avanti e salutando con nobil contegno, s'adagiò sopra un seggiolone di cuojo rosso a bracciuoli, in capo ad una tavola che era nel mezzo, dove tenea lo scrittojo, ed accennò cortesemente a ciascuno di sedere.
Era vestito d'una cappa di sciamito nero rabescato, con una grossa catena d'oro al collo, dalla quale pendeva sul petto un medaglione dell'istesso metallo, lavorato sottilmente a cesello. Portava una daghetta in cintura d'acciajo nero martellato; ed in questo schietto vestire, la sua mirabil presenza, il volto d'una tinta pallida ed un po' brunetta, con alta fronte che mostrava esser sede di fortezza e di senno non ordinarj, inspiravan quella riverenza che si tributa più alle doti dell'animo, che ai favori della fortuna e della nascita. Aveva ciglia folte, barbetta alla spagnuola, ed un mover d'occhio tardo e risguardato, che lo dava a conoscere autorevole e potente signore.
L'occasione presente pareva ed era a lui di grandissima importanza, non solo perchè ne andava l'onore dell'armi italiane, ma perchè l'esito di questa fazione, nelle attuali circostanze ove fra due re potenti con incerta fortuna si combatteva, potea produrre gravi conseguenze per lui, per la sua casa e per la parte colonnese. Il vincere una disfida che avrebbe certamente fatto gran romore, dava molta riputazione agli uomini suoi ed alla sua bandiera; perciò, dei capitani spagnuoli e francesi qualunque restasse vittorioso, avrebbe alla conclusione avuto maggior riguardo ad offenderlo e maggior interesse a tenerselo amico.
A tutti è noto inoltre, quanto in terra di Roma fosse ostinato il contrasto fra la parte colonnese ed orsina, che malcondotte entrambe dalla forza e dalle frodi d'Alessandro VI e di Cesare Borgia potevano, o coi soccorsi stranieri o col proprio valore, ajutate da qualche felice occasione, pensare a rifarsi; onde se v'era mai stato tempo da dover tenere l'invito della fortuna ed afferrarla pe' capelli, era questo sicuramente.
Conosceva il sagace condottiere gli spiriti bollenti di Fieramosca, e quanto potesse in lui sete di gloria ed amor di patria: vedeva che da' suoi discorsi erano spesso infiammati gli animi de' compagni a mostrarsi Italiani, e sentì quanto poteva a quest'ora ajutare coll'esempio, e coi detti accendere vieppiù quel divino ardore che rende l'uomo pari alle grandi imprese.
A lui dunque si volse cominciando a parlare: disse già in parte conoscere l'accaduto, ma voler ora udirlo più distesamente, onde si potesse prender subito un partito. Ettore espose il fatto magnificando le parole d'Inigo dette in favore della nazione italiana: quand'ebbe finito, il signor Prospero alzandosi in piedi, parlò così:
– Illustri signori! Se voi non foste quelli che siete, ed io per la compagnia avuta con esso voi in tante battaglie non avessi esperienza dell'alto valor vostro, crederei fosse mestieri rammentarvi, come i nostri avi per le loro virtuose operazioni fecero salir tant'alto la gloria della patria che l'universo ne restò abbagliato; nè poterono le tenebre e le sventure di dieci secoli spegner gli ultimi raggi di tanta luce. Come costoro che d'oltremonti ora vengono a bersi il sangue italiano, e non contenti, aggiungono lo scherno all'offesa, tremavano allora al solo nome romano. Vi direi che tant'oltre è giunta omai questa loro sfacciata insolenza, che dopo d'avere strappato, e con quali arti sallo Iddio, la gloriosa corona che faceva Italia regina dei popoli, ed era stata compra con tanti sudori e tanto sangue, par loro non aver fatto nulla finchè ci vedono una spada in mano ed una corazza sul petto, e vorrebbero torci perfino di poter combattere e morire in salvazione dell'onor nostro. Vi direi: Su dunque: andiamo, corriamo tutti; si piombi su questi ingordi ladroni sprezzatori d'ogni diritto; e ben veggo nei vostri sguardi che le mie parole sarebber tarde a fronte delle spade italiane… Ma invece… l'ufficio di condottiero, duro pur troppo in così grave occasione, mi comanda di porre un freno al vostro valore, e m'è forza il dirvi che tutti non potrete combattere, e converrà concedere a poche spade la gloria della nostra vendetta. Il magnifico Consalvo, dovendo con forze minori sostenere i diritti del re cattolico, non consentirebbe che il sangue de' suoi soldati si spargesse per altre cagioni. Per dieci uomini d'arme otterrò, spero, salvocondotto e campo franco. Senza metter tempo in mezzo, vado, ed ottenuto che l'abbia, ritorno. Intanto ognuno di voi scriva su un foglio un nome: a Consalvo la scelta. Ma prima dovete giurare di stare a quanto verrà da lui stabilito. —
Il discorso fu accolto con un bisbiglio d'approvazione, e tutti giurarono. Furono scritti i nomi e dati al signor Prospero, il quale alzatosi da sedere, venne alla porta, ove due famigli gli tenevano apparecchiata una mula: vi salì, ed accompagnato da que' soli due s'avviò alla rocca.
Dopo una mezz'ora, che parve un secolo all'impaziente ansietà di que' giovani, ritornò; e scavalcato, entrò nella sala terrena rimettendosi ciascuno al luogo di prima: il silenzio e l'espressione degli occhi fissati tutti sul barone romano, mostravano quanto fosse la smania di conoscer la scelta, e la speranza d'ognuno d'averla favorevole.