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Novelle e riviste drammatiche
Per Tom la partita poteva dirsi perduta; non erano le combinazioni del giuoco che lo facevano così commosso, era l'allucinazione. Lo scacco nero, per Tom che lo guardava, non era più uno scacco, era un uomo; non era più nero, era negro. La ceralacca rossa era sangue vivo e la testa ferita una vera testa ferita. Quello scacco egli lo conosceva, egli aveva visto molti anni addietro il suo volto, quello scacco era un vivente… o forse un morto. No; quello scacco era un moribondo, un essere caro librato fra la vita e la morte. Bisogna salvarlo! salvarlo con tutta la forza possibile del coraggio e della ispirazione. All'orecchio del negro ronzava assiduamente come un orribile bordone quella frase che l'Americano aveva detto ridendo, prima d'incominciare la partita: —Se si potesse riattaccare così la testa ad un uomo!– e quell'incubo aumentava l'allucinazione sua.
La fronte di quella figura di legno diventava sempre più umana, sempre più eroica, toccava quasi all'ideale e, passando da trasfigurazione in transumanazione, da uomo diventava idea, come da scacco era diventata uomo. L'idea fissa era ancora là, nel centro dell'anima del negro, sempre più innalzata, sempre più sublimata. Da mania si era mutata in superstizione, da superstizione in fanatismo. Tom era in quella notte, in quel momento la sintesi di tutta la sua razza.
Passarono così altre quattro ore, mute come la tomba: due morti o due assopiti avrebbero fatto più rumore che non quei due uomini che lottavano così furiosamente. Il pugilato del pensiero non poteva essere più violento: le idee cozzavano l'una contro l'altra; i concetti cadevano strozzati da una parte e dall'altra. I volti non si guardavano più, le due bocche tacevano. A una certa mossa l'alfier nero perdette terreno, la torre bianca colla sua marcia potente e diritta lo offendeva e ad ogni passo minacciava di coglierlo. L'alfiere schivava obliquamente con degli slanci da pantera la sua formidabile persecutrice; Anderssen seguiva perplesso la corsa furibonda dell'alfiere spingendo sempre più avanti il suo pezzo e rinserrando il pezzo nemico verso un angolo della scacchiera. Questa fuga febbrile, ansante, durò una intiera mezz'ora; i due re anch'essi prendevano parte in questa frenetica scherma; e lottando anch'essi l'uno contro l'altro, parevano due di quegli antichi re leggendarii d'Oriente che si vedevano errare dopo la battaglia sul campo abbandonato, cercandosi ed avventandosi fra loro tragicamente.
Dopo mezz'ora la scacchiera aveva di nuovo mutato faccia; la fuga dell'alfiere e lo sconvolgimento dei due re, della torre e delle pedine avevano trascinato cosifattamente i pezzi fuori dai loro centri, che il re bianco era andato a finire nel campo nero, sull'estremo quadrato a sinistra; il re nero gli stava a due passi sulla casa stessa del proprio alfiere. Anderssen, abbagliato dalle evoluzioni fantastiche dell'alfier nero, continuava ancora ad inseguirlo, a rinserrarlo, a soffocarlo.
A un tratto lo colse! lo afferrò, lo sbalzò dalla scacchiera assieme agli altri pezzi guadagnati e guardò in faccia con piglio trionfante la sconfitta nemica.
Erano le cinque del mattino. Spuntava l'alba. La faccia del negro brillava d'uno splendore di giubilo. Anderssen, nella foga della caccia al pezzo fatale, aveva dimenticato la pedina nera che stava sulla penultima casa dei bianchi alla sua destra. Quella pedina era là già da quattro ore ed egli ne aveva sempre differita la condanna. Quando Anderssen vide quella gran gioia sul volto del negro, tremò; abbassò con rapida violenza gli occhi sulla scacchiera.
Tom aveva già fatta la mossa. La pedina era passata regina? No. La pedina era passata alfiere, e già l'alfiere segnato, l'alfiere nero, l'alfiere insanguinato, era risorto ed aveva dato scacco al re bianco. Il negro guardò alla sua volta con orgoglio la scacchiera. Anderssen stette ancora un minuto secondo attonito: il suo re era offeso obliquamente per tutta la diagonale nera del diagramma; da un lato l'altro re gli chiudeva il riparo, dall'altro lato era inceppato da una sua stessa pedina. Il colpo era mirabile! Scaccomatto!
Tom contemplava estatico la sua vittoria.
Giorgio Anderssen spiccò un salto, corse al bersaglio, afferrò la pistola, sparò.
Nello stesso momento Tom cadde per terra. La palla l'aveva colpito alla testa, un filo di sangue gli scorreva sul volto nero, e colando giù per la guancia, gli tingeva di rosso la gola ed il collo. Anderssen rivide in quest'uomo disteso a terra l'alfiere nero che lo aveva vinto.
Tom agonizzando pronunciò queste parole: – Gall-Ruck è salvo… Dio protegge i negri… – e morì.
Due ore dopo il cameriere che entrò nella sala per dar ordine ai mobili, trovò il cadavere del negro per terra e lo scaccomatto sul tavolo.
Giorgio Anderssen era fuggito.
Venti giorni dopo arrivava a New-York, e là incalzato dai rimorsi, si era costituito prigioniero e denunciato come assassino di Tom.
Il Tribunale lo assolse, prima perché l'assassinato non era che un negro e perché non poteva sussistere l'accusa di omicidio premeditato; poi perché il celebre Giorgio Anderssen si era denunciato da sé, infine perché si era scoperto nelle indagini giudiziarie che il negro ucciso era fratello di un certo Gall-Ruck che aveva fomentata l'ultima sollevazione di schiavi nelle colonie inglesi, quel Gall-Ruck che fu sempre inseguito e non si potè mai trovare.
Anderssen rientrò nelle sue terre col rimorso nel cuore non alleggerito dalla più tenue condanna.
Dopo la catastrofe che raccontammo giuocò ancora a scacchi, ma non vinse più. Quando si accingeva a giuocare, l'alfier nero si mutava in fantasma. Tom era sulla scacchiera! Anderssen perdé al giuoco degli scacchi tutte le ricchezze che con quel giuoco aveva guadagnate.
In questi ultimi anni povero, abbandonato da tutti, deriso, pazzo, camminava per le vie di New-York facendo sui marmi del lastricato tutti i movimenti degli scacchi, ora saltando come un cavallo, ora correndo dritto come una torre, ora girando di qua, di là, avanti e indietro come un re e fuggendo ad ogni negro che incontrava.
Non so s'egli viva ancora.
IBERIA
I
L'epoca di questo fatto ci è ignota; il paese è la Spagna.
Un cavallo corre furiosamente per campi deserti, un cavaliere lo sprona, nero l'uno, nero l'altro; ravvolti nelle pieghe d'un immenso mantello, sembrano una nuvola d'uragano che voli, radendo la terra, col fulmine in grembo. Il cavaliere nasconde la sua faccia in un ampio cappuccio. Sotto quella tenebrosa coperta si possono supporre tutte le schiatte umane di tutti i tempi, lo spagnuolo, il saraceno, l'hidalgo; la corazza di ferro del quattrocento, il giustacuore di cuoio del cinquecento, la giubba di velluto del seicento vi si potrebbero parimenti celare. Quel fosco mantello è una larva che maschera un uomo e un secolo. Alla oscurità delle vesti, la vertigine della corsa s'aggiunge per fare più inafferrabile ancora quel mistero volante.
Veduto da lungi, il cavallo disegna nel vuoto colla curva delle zampe balzanti un arco d'aereo ponte che si ripete sterminatamente per la campagna. Lo scalpito metallico de' ferri scande sul terreno un ritmo stringato e preciso come i trochei di Pindaro. Quel cavallo ha il volo e il metro dell'ode. I pioppi sfilano in processione sotto gli occhi del cavaliero e le loro fronde, smosse dalla brezza del vespro, rendono suono d'applausi lontani.
Chi è quel fuggiasco? In che secolo vibrarono i palpiti di quella corsa? nel grande oceano delle ore quali furono i minuti marcati da quel galoppo furente?
A che giova saper la cifra del tempo!?
Il cuore non muta, la terra non si trasforma per variar di secoli e di storia. Regni in Granata l'Abenceragio o Filippo II, domini sulla Spagna intera il fanatismo del turbante o della croce, vigili sul trono di Madrid il genio di Carlo V o vi dorma l'idiotismo di Carlo II, che importa ciò al trovator di romanze e al monte dell'Estremadura? L'uno canterà sempre le sue albe sotto il terrazzo della dama sua, l'altro coronerà sempre di fiori la cima delle sue antiche palme. Ciò solo che sta fra l'uomo e la natura appar mutabile: leggi, costumi, scienze. Un divino impulso spinge codeste labili forme verso un perenne moto d'ascensione; ma né le sante virtù del cuore ponno farsi più sante, né le belle virtù del creato ponno farsi più belle.
La storia che raccontiamo è l'eterna storia dell'amore nell'eterno paese della poesia; non mettiamo date all'eternità.
Il cavallo non s'arresta, non s'allenta mai. Tutte le fiumane di Leone e di Castiglia passarono già sotto il suo volo; d'un balzo varca l'Esla, d'un altro balzo l'Orbigo, d'un altro balzo la Duera; pure, giunto presso gli orli della Pisurga, esita, ma l'uomo che lo cavalca, implacabile, feroce, gli conficca gli sproni ne' fianchi, alcune goccie di sangue cadono sulla riva, il puledro si dibatte fra le ginocchia del cavaliero, spicca un salto portentoso, e la Pisurga è varcata ed è ripresa la fuga, e passa Valadolid e passa Zamora e si sprofonda nelle più selvaggie regioni dell'Estremadura. La linea del suo viaggio parte da Salamanca e va alla montagna. Ogni suo sbalzo divora dieci cubiti di terreno, la sua unghia ferrata ripete sul suolo quel gesto nervoso che fa la mano di chi sfoglia rapidamente un libro e getta pagina su pagina. Così quel cavallo scaglia dietro di sé trionfalmente le leghe percorse.
Il cavaliere si volge con orgogliosa movenza verso la propria ombra che il sole tramontando profila per terra; la vede disegnarsi lunga lunga e incurvarsi leggiera in un vano del colle, simile alle figure bizantine delle alte cupole orientali. Davanti ogni croce che incontra s'inchina devoto fino a toccar le briglie col capo. E viaggia. Senza questi segni manifesti di adorazione cattolica, ei si direbbe un evaso dai roghi del Sant'Ufficio che provò già i primi lambimenti del fuoco.
La notte sale sulla montagna e il bruno cavallo con essa. Le due Castiglie s'addormentano nel buio senza neanche un auto-da-fé per fiaccola notturna.
Un soffio di vento fa cadere il cappuccio sulle spalle del cavaliero, e il cavaliero schiude il suo volto alla limpidezza del cielo. È un giovanetto bello di bellezza ideale, biondo come un bambino e abbronzito come un guerriero. Gli arcangeli che pellegrinavano sulle sabbie della Palestina ai primi anni di Cristo, dovevano risalire l'azzurro abbronziti così. Ed egli aveva dell'arcangelo anche la vaga età, come la ideava Murillo, errante fra i quindici e i dieciott'anni. Al pudico ceruleo degli occhi si avrebbe detto quindici, al fiero congiungimento delle labbra si avrebbe detto dieciotto. Egli correva ancora, benché il sentiero salisse erto e selvoso.
La notte s'avanzava e il bel cavaliero tornava a nascondere il suo viso nella folta penombra, il suo viso apparso come meteora, un istante, fra i fuggenti riverberi del crepuscolo. Giunto a una più erta salita, scende di cavallo e cammina. Alla foga quasi paurosa è succeduta una più paurosa lentezza. Il giovanetto fa passi radi, brevi e tremebondi; il suo cavallo affranto lo segue.
Giunto a mezzo del monte incomincia a cantare un'alba provenzale che l'eco della valle deserta ripete così:
ErransaPezansaMe destrenh e m balansa;Res no sai on me lansa,e continua a salire sempre più lento per vie sempre più selvaggie.
Mancano due ore a mezzanotte quand'egli arriva agli spaldi d'un immenso castello ritto sul ciglione d'una rupe. Il giovanetto lega il suo puledro alla massiccia balaustra del ponte levatoio; poi s'appoggia col gomito sulla sella e rimane immobile in quell'atteggiamento qualche minuto. Indi ripiglia a cantare con voce intensa e tremante:
Nacido en Castilla,Enamorado en Leon,e un'altra voce più fluida e più bianca risponde:
Nacida en Leon,Enamorada en Castilla,e il ponte levatoio è abbassato, ed appare una forma bianca come la voce che aveva cantato, e il giovanetto passa, e s'odono, in fondo al porticato oscuro, mormorar questi nomi:
"Estebano".
"Elisenda".
II
– Principe, mi apparite più veloce del sogno e più pronto della speranza!
– Mi posi in viaggio all'aurora con tre puledri, uno bianco, uno sauro e uno nero; salii sul bianco a Castiglia, gli altri due mi seguivano. A Palenza il bianco morì e salii sul sauro; a Salamanca il sauro morì e salii sul nero, che ora dorme laggiù fuor dello spaldo.
– Cugino Estebano, il sangue dei nostri grand'avi bolle fieramente nelle nostre vene. I re di Castiglia erano chiamati aguilas en sus caballos.
– E le regine di Leone erano dette fadas en sus castillos, principessa Elisenda, graziosa cugina mia.
L'accento di quest'ultime parole sonò grave e oscillante sulle labbra del giovanetto, come la cadenza d'un canto.
– In dieci anni che non ci siamo visti è cresciuta in voi la statura del corpo e la gentilezza della parola. Vi stanno ancora nella memoria le serenate di Valadolid?
– I due versi che ho cantato poc'anzi ve ne fanno fede. Avevo sett'anni quando li composi per voi nel parco della defunta principessa Blanca vostra augustissima madre; e cinque anni avevate voi quando per la prima volta mi rispondeste cantando come questa sera.
– Sì; me ne rammento tanto, tanto. Io vi chiamavo Menestrello e voi mi chiamavate Reina. Voi portavate i miei colori, io ripetevo le vostre canzoni; e mi ricordo d'una volta che vi nascondeste nel bosco dei leandri per piangere un giorno intero quando scopriste che il verso Enamorado en Leon era sbagliato; né prima ve n'eravate accorto, né poi lo sapevate correggere.
– E non l'ho ancora corretto, principessa.
– Spero che non lo correggerete mai.
Dopo queste parole il castello echeggiò alle risate dei due giocondi cugini.
Indi Estebano ricominciò:
– E Don Sancio, il vostro buon nonno, come morì?
– Povero nonno! morì di vecchiaia, la morte del leone. Egli presentiva l'ora della sua fine. Tre dì prima di andarsene in paradiso vergò il suo testamento, quello che leggeste ieri a Castiglia; piegò, suggellò e v'inviò egli stesso lo scritto. Il giorno dopo, che fu ieri, escì dal castello coll'archibugio ed uccise tutti i corvi e tutti gli avvoltoi di queste gole; poi si riposò. Oggi, prima dell'alba, mi prese per mano e mi condusse sulla cornice d'un burrone, da dove quel forte vegliardo soleva ogni dì contemplare il crepuscolo. Lì, sull'orlo dell'abisso, appoggiando la schiena contro la roccia nuda, parlò a me, che lo guardavo dal ponte, così: "Principessa Elisenda de Sang-Real, figlia di colui che nacque dal figlio di tutti i re di Leone, sappiate che oggi, quando il sole comparirà in questa rupe, io sarò morto. Non piangere, ma ascolta. Quest'aurora è il tramonto mio". (Ed egli mormorava ciò mentre voi, cugino, sellavate a Castiglia il cavallo bianco). "Ti ricordi", soggiunse, "a Madrid quel vecchio toro che non sapeva più combattere nel circo e che penava a morire? Tu eri ancora bambina e ridevi guardandolo e lo beffavi: io, per moderare il tuo riso, che non s'addiceva a prole di regnatori, ti dissi: – Donna Elisenda, sul davanti della vostra bocca ognun vede che manca qualche tenero dente di latte – ; allora ti facesti seria e chiudesti le labbra. Oggi che hai tutti i tuoi denti e che nessuno ti scorge, puoi sorridere, figliuola mia; il toro decrepito c'è ancora". E intanto che il vecchio parlava s'udì nell'alvo dell'azzurro il gorgheggio della prima lodola. Don Sancio levò la testa come per cercare nell'aria l'augellino canoro e poi sclamò: "Ecco già il grillo del paradiso! Da queste vette al cielo c'è poca distanza… tu non aver paura, figliuola, non turberò le tue notti. Per sola esequie accenderai nell'oratorio, questa sera, l'antica torcia benedetta che fu la face tutelare della nostra stirpe, da Alfonso VIII fino a te. Abbi gran cura di quel sacro cero, bada che per ispegnerlo ci vuole l'alito d'una sposa; ti sarà spiegato poi questo mistero. In quella fiamma è chiuso il fato della nostra razza. Quel cero fu tratto dall'arnie che popolano le valli dove nacque Gesù; lo portò da Terra Santa uno de' nostri avi eccelsi. Il profetico frate che glielo porse gli disse: – Finché questo cero arderà vivranno i troni di Spagna. – D'allora in poi avemmo sempre per costume d'accendere quella preziosa reliquia ad ogni nostro funerale e ad ogni nostro imeneo. Ora non puoi ancora comprendere tutta la sapienza dell'oracolo avvinto alla vetusta reliquia. Sappi soltanto che l'alito d'una vergine, su quella vergine cera, estinguerebbe insieme alla fiamma la grazia divina che veglia sulla nostra progenie, e la progenie sarebbe spenta con essa. Elisenda, le anime dei tuoi figliuoli si accenderanno alle faville di quel cero serafico, ma prima di spegnerlo attendi Estebano tuo. Egli arriverà questa notte, gli ho scritto; arriverà questa notte, ti sposerai ad Estebano; un vecchio moribondo è vicino a Dio più del più santo sacerdote, ed io stendo verso di te la mia mano non ancora tremante e benedico il tuo regio imeneo. Gli angeli veglieranno sul sacro connubio dei due ultimi dilicati rampolli di Sang-Real". Poi pronunciò parole così oscure e così profonde che io non le compresi. "Pensa, Elisenda", soggiunse, "che dal tuo grembo sorgerà la storia dei secoli venturi; dell'alta quercia imperiale, che dilatò le sue ombre fin sull'Asturia e sull'Aragona, due ramoscelli rimangono ancor vivi. Dio unirà questi due ramoscelli che diventeranno una sola ed eterna radice. Da donna Urraca e da Alfonso el Batalador nacque la nostra gloria passata; da donna Elisenda e dal principe Estebano de Sang-Real sorgeranno le nostre glorie future. Bimbi leggiadri ed augusti, siete fiorellini di re, siete semi di re! e come da una sol'ape coronata pullula l'intera popolazione degli alveoli armoniosi, così popola tu, figliuola, gli alti troni del mondo! Estebano, Elisenda: amate, germinate! Offro a Dio in olocausto questi lunghi anni di romitaggio e di umiltà, pei quali piacquegli conculcare temporariamente la mia imperiale famiglia. Ma in premio della mia perduta potestà chiedo a Dio per le creature delle mie creature una imperitura dominazione. Ricordati, Elisenda, delle somme virtù che furono fregio alla tua schiatta possente; riuniscile tutte in te e ciò sia la tua religione:
Alfonso I era chiamato il cattolico;
Alfonso II era detto il casto;
Alfonso III era denominato il grande:
Sancio II il forte;
Alfonso VIII il nobile;
Alfonso X il savio;
e Pietro I il crudele.
Se tu non ispregerai nessuna di queste antiche virtù da monarca, e se ti comporrai con tutta la salda armatura dell'anima, sarai genitrice d'eroi, e Ceuta e Tunisi e Melilla e Cuba e Venezuela e San Domingo e Navarra ritorneranno Spagna. Io vissi umile in faccia ai signori d'Europa, ma pur volli per asilo alla mia umiltà la più elevata cresta dell'Estremadura. Tu da umiltà guardati come da peccato; sappi trarre dal meditato abbassamento mio cagione d'auge ai nepoti. L'umile passa inosservato sotto gli occhi dell'Altissimo che creò le alte montagne; l'incenso che sale da loco basso e nascosto offende le nari dell'Onnipossente. Dio è l'eterno orgoglio che regge la vita dell'Universo. L'umiltà è la virtù delle turbe. Gesù sta ben ritto davanti alla plebe prosternata, e chi vuol favellare a Filippo II, foss'anche un duca di Medina Celi, dee piegare il ginocchio. Nessuno può essere più alto del re…"
– E intanto il sole saliva dietro la montagna che era di fronte a Don
Sancio, ed irradiava le vette che gli stavano sul capo. Il nonno misurò collo sguardo e colla mente il corso della luce e sclamò:
"Ancora un'ora di vita!"
– Poi si raccolse nei suoi pensieri.
– Dopo mezz'ora si scosse dicendo: "È tempo ch'io mi confessi". Allora si fece il segno della croce, si curvò col capo sull'abisso profondo che si squarciava sotto ai suoi piedi, e, incurvando le mani alla bocca in forma di portavoce, mugghiò verso il precipizio: "Tu sarai il mio confessore". La sua parola si perdeva nel burrone, squillante come la nota d'un corno da caccia. La voragine, co' suoi tortuosi meandri, pareva un immenso orecchio di tenebra su cui piombavano queste voci:
"Ho tre peccati sull'anima. Eccoli:
"Primo peccato: quando avevo vent'anni, a Zamora salvai dal rogo tre infedeli, un moro, un ebreo e un luterano.
"Secondo peccato: quando avevo cinquant'anni, salendo a questi dirupi, allontanai dalla mia solitudine e dalla mia povertà tutti i miei vecchi servi, tutti i miei santi preti e tutte le mie povere ancelle.
"Terzo peccato: ieri, vigilia della mia morte, ho ucciso un'aquila reale sul suo nido".
– E si levò come un albero in nave.
– Io allora feci un passo come per varcare il ponte che ci divideva;
Don Sancio me lo vietò, gridando:
"Fermati, non avvicinarti, non toccarmi; mi faresti cader vivo nel precipizio".
– Il sole continuava a salire ed il suo raggio a discendere sui macigni del monte, attraversando una rupe spaccata nel mezzo come una gigantesca merlatura guelfa.
– A un tratto il sole raddoppiò di splendore; c'era la distanza d'un palmo dalla sua luce ai capelli del nonno. Il nonno pareva assorto in contemplazione, ritto sui piedi e appoggiato alla roccia; fu un baleno quando il suo crine canuto al primo tocco della luce diventò d'argento. Il sole sembrava un arciere appostato dietro la rupe spaccata come dietro una feritoia; l'arciere appuntava lentamente il suo arco verso le pupille del nonno; una saettata di luce vibrò sugli occhi di Don Sancio. Il sole e il vegliardo si fissarono per un attimo come due rivali. La freccia era scattata; Don Sancio era morto. Il sole lo aveva fulminato; pure non cadde e stette ritto fino a meriggio. Mentre voi sellavate a Salamanca il vostro caval sauro, il vento urtò il povero nonno, che precipitò nell'abisso.
– Pace all'anima di Don Sancio, – rispose Estebano; domani scenderò nel precipizio, raccoglierò la salma veneranda e la porterò nel chiostro di Sant'Isidoro, dove dormono tutti i monarchi di Leone.
Elisenda soggiunse: —Amen.
III
I due cugini, così parlando, camminavano lentamente fra gli oscuri colonnati del castello. L'uniforme pestio degli sproni d'Estebano accompagnava lungo i marmi del cortile il fiero racconto d'Elisenda; tutto intorno era silenzio. Intanto la luna alzatasi splendeva già sui monti e sui tetti; una piccola stella le vagava d'accanto e pareva una lagrima di luce.
Estebano mormorò: – La luna piange! – e i due giovanetti s'arrestarono immobili a guardarla, mentr'essa benignamente li inondava di raggi. Allora comparve illuminato e purissimo il viso della fanciulla.
A fermare col pensiero la tenuissima gradazione ideale che esisteva fra le fattezze e le anime di quei due cugini, simigliantisi come due fratelli, non troviamo altra imagine fuor che questa:
Estebano era un fiore vivace con un profumo gentile;
Elisenda era un fiore gentile con un profumo vivace.
Il gherofano e la viola avevano fra essi scambiato l'olezzo, e per ridonarselo entrambi era forza che l'uno penetrasse nell'essenza dell'altra. Ogni armonia ed ogni soavità sembrava assorta in quella coppia adolescente. Appariva fra essi di vario appena quel tanto che è indispensabile al simpatico accordo delle cose create. Del resto erano in tutto l'identica ispirazione di Dio tentata su due sessi diversi, Estebano la forma virile ed Elisenda la forma femminea dello stesso divino concetto. Essi si assomigliavano come tutti gli angeli si assomigliano. Certo nelle loro vene scorreva infuso l'azzurro del cielo tanto essi apparivano eterei. L'orgogliosa frase castigliana, sangre azul, colla quale si fregia tuttora l'antichissima nobiltà spagnuola anteriore alla invasione dei saraceni, realizzavasi idealmente nei due ultimi germogli dei Sang-Real.
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