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Il ponte del paradiso: racconto
Comunque fosse, dopo averci pensato più lungamente che non portasse il bisogno, Raimondo scosse il capo e le spalle; segno che voleva gittare un carico importuno ed inutile. E tacque delle signore Cantelli a colazione, e ne tacque a pranzo; tacque soprattutto, poichè l'argomento non sarebbe piaciuto, tacque di essere stato poco prima al Danieli per ringraziar le signore una volta ancora, e di aver fatto, contro l'uso suo, una visita lunga.
Venne la sera, e Raimondo offerse alla sua Livia di accompagnarla a teatro. Ma ella si sentiva ancora un po' stanca della notte perduta; cinque ore di sonno in giornata non erano state riparatrici abbastanza; lo specchio, poi debitamente interrogato, le aveva fatto scorgere un po' di livido intorno ai begli occhi glauchi, e tra gli occhi e le guance due pieghettine, due cose da nulla, ma ad ogni modo, e comunque attenuate da cortesi eufemismi, due borse. Piccolo guaio delle bionde, che sogliono avere la pelle più tenera. Si vedrà? Non si vedrà? Nel dubbio, la bella bionda si astiene.
Raimondo uscì, per far quattro passi: un'ora dopo era già di ritorno, con un fascio di giornali, che prese a leggere, facendone parte di tanto in tanto a sua moglie; per le notizie d'arte e di cronaca, s'intende, che la politica non era nelle grazie della bella signora.
– Strano! – diss'ella in un momento di sosta del suo cortese lettore. – Il tuo signor Filippo non si lascia vedere da noi, nel primo giorno dell'anno nuovo.
– O come? – esclamò Raimondo. – Non c'era stamane, avendo cominciato l'anno da noi? Del resto, ricordo di aver ricevuto un suo biglietto di scusa, e di scusa legittima. —
Così dicendo, trasse di tasca una lettera e la pose sulla tavola, davanti a sua moglie. Livia la prese, dopo alcuni minuti secondi; l'aperse con atto lento e svogliato; finalmente la lesse. Erano pochi versi di scritto e dicevano così:
“Caro Raimondo.
“Vorrei venire oggi al tuo banco, per darti ancora un saluto; ma ho un gran sonno, un gran sonno. Chiederai perchè io non abbia dormito stamane appena arrivato a casa. La rea cagione è questa, che ho trovato a casa un telegramma da Verona, un telegramma di due vecchi amici, di due commilitoni, che mi annunziavano la loro venuta, e per l'appunto in giornata, volendo passare a Venezia tre o quattro giorni della loro licenza. Li ho sulle braccia, e mi è toccato dar ordini per preparar loro l'alloggio nel mio modesto quartierino. Stasera debbo andarli ad aspettare alla stazione; per intanto vo a letto, che l'ho ben guadagnato. Di tutto cuore, addio; ossequj ed augurj senza fine alla tua Signora.
Filippo.„Il biglietto dell'Aldini, così innocente nella sua semplicità, aveva già seccato non poco Raimondo Zuliani. Quei due amici, e vecchi commilitoni, proprio non ci volevano; guastavano infatti, o potevano guastare tutti i disegni ch'egli aveva formati in quei giorni. Con due vecchi commilitoni sulle braccia, ed ospiti per giunta, come sarebbe riuscito Filippo a far la sua corte? Ed era urgente di farla; bisognava battere il ferro mentre era caldo. A farlo a posta, quel caro Filippo era un così strano ragazzo! Aveva preso fuoco e levata come si suol dire la fiamma; poi giù tutto ad un tratto, come se fosse stato un fuoco di paglia. Strano ragazzo! Ma occorreva avere senno per lui.
– E così, vedi, non ha potuto venire; – disse Raimondo, poi che sua moglie ebbe deposta la lettera. – Ci ha ospiti.
– Peccato! – esclamò la signora. – Appunto per questa sera gli si sarebbe potuta dare la chiave del palco, per poterli condurre alla Fenice.
– Un palco di seconda fila, per uomini, eh, via! – osservò Raimondo. – Non l'hai voluto mai cedere per le signore Cantelli!..
– Oh, quelle son ricche, e possono provvedersi.
– Pazzerella! Quando hai qualcheduno in uggia!..
– Ma che! ora tu esageri, secondo l'uso; – notò la signora. – Di' piuttosto che non sento il bisogno di buttarmi nelle loro braccia. La signora Eleonora, con quella sua mutria, per esempio, non è proprio fatta per attirarmici. —
Raimondo sorrise a sua moglie, e un pochettino anche a sè.
– Dicevo bene, – pensò egli, – che non era per la figliuola. Ma quella povera signora Eleonora, com'è mal giudicata da mia moglie! Con tutto il suo sussiego apparente, è la miglior pasta di donna che si possa immaginare. E se Livia sapesse ancora… Ma acqua in bocca per ora, ed ogni cosa al suo tempo. —
Quella sera la signora Livia si ritirò presto nelle sue stanze. Il ricamo turco, che aveva tentato di ripigliare, le dava noia; ed anche le occorreva pensare ai suoi poveri occhi, che volevano il giorno dopo essere in ordine, freschi come rose. Raimondo stette ancora un pezzo alzato, e passò il resto della lunga serata casalinga, in parte ripassando conti, in parte scrivendo minute di lettere d'affari, da trasmettere la mattina seguente al signor Brizzi. E tenne i suoi bravi segreti in corpo, diventando un miracolo di prudenza diplomatica ai suoi occhi medesimi. Così, grandemente soddisfatto di sè, dormì quella notte veramente di gusto, sognando di aver tutti dalla sua, la signora Eleonora e il banchiere Anselmo, e di unire in matrimonio quell'angelo della signorina Margherita col suo caro Filippo, col suo dolce pupillo, col suo fratello minore.
Lo incontrò il giorno dopo, tra il tocco e le due, presso la Torre dell'orologio, mentre egli, ritornato da far colazione, rientrava al suo banco. Filippo Aldini era solo.
– Oh, bravo! – gli disse. – Ho il piacere di combinarti. E i tuoi amici di Verona?
– Li ho lasciati poc'anzi; – rispose Filippo. – Sono andati a fare il giro del Canale, che iersera arrivando non hanno potuto godere. Quanto a me, capirai, dopo tanti anni di barchettate…
– Hai l'acqua fino alla gola, t'intendo; e li hai lasciati andar soli, per rivederli più tardi?
– Sì, abbiamo preso appuntamento per le quattro; – disse Filippo.
– Se credi, – ripigliò Raimondo, – puoi condurli questa sera da noi. I tuoi amici sono i nostri.
– Grazie, no, grazie; – rispose prontamente Filippo. – Per dirti il vero, sono un po' orsi.
– Ufficiali di cavalleria, – notò Raimondo stupito, – commilitoni tuoi, e tanto diversi da te? Basta, non insisterò; tu devi sapere ciò che è più conveniente. Parliamo di ciò che importa. Sei libero?
– Sì, fino alle quattro, ti ho detto.
– Bene; allora accompagnami al banco. Si discorre male, per via. —
L'Aldini capì benissimo dove Raimondo volesse andare a parare, e si adattò a seguirlo. Del resto col suo prepotente amico non si poteva fare altrimenti.
Come furono al banco Zuliani, e ben chiusi nello studio di Raimondo, questi incominciò allungando la mano sulla scrivania, e facendo scivolare verso l'Aldini una scatola di lacca giapponese, aperta, e piena di spagnolette. La seduta voleva esser lunga.
– Siedi, mio caro; – disse Raimondo. – Qui sono Tokos, Giubbeck, Delizie del Serraglio, ecc., ecc. “Scegli qual più t'aggrada„.
– No, grazie, non fumo; – rispose Filippo. – Ma tu hai da dirmi…
– Oh, tante cose. E prima di tutto ho da chiederne una a te. Come sei rimasto contento ieri mattina del tuo ufficio di accompagnatore?
– Contento? di un dovere compiuto? – disse Filippo. – È così semplice, poi. In gondola, quattro chiacchiere senza costrutto, molti elogi alla tua cena sontuosa; e finalmente, alla Riva degli Schiavoni, ossequj e riverenze.
– Nient'altro?
– Nient'altro.
– Male; – conchiuse Raimondo. – Avevi da promettere una visita, chiedendo se le signore avevano bisogno di te, per qualche gita qua e là, che tu saresti stato felicissimo di metterti a loro disposizione. Ma che razza di cavaliere mi sei tu diventato?
– Hai ragione, dovevo pensarci. Ma che vuoi? Questo costume di buttarmi avanti, io non l'ho avuto e non l'avrò mai; colle signore Cantelli, poi, meno che mai.
– E perchè, di grazia, perchè con esse meno che con altre? Avevi pur cominciato, se non a buttarti avanti, come tu dici, a fare almeno qualche atto di servitù!
– Vero; – disse Filippo. – Eri tu che mi avevi messo dentro; ed io mi sono trovato al laccio senza volerlo; ma poi ho pensato… ho pensato che non dovevo continuare, che non potevo restare in quell'ufficio di accompagnatore eterno, senza lasciar credere alla gente, e prima di tutto alle signore Cantelli, di averci le mie ragioni particolari… M'intenderai, senza che io te ne dica di più.
– È un buon sentimento; – concesse Raimondo. – Ma non bisogna esagerarlo. Sentimi, caro; perchè tu ami la signorina Margherita…
– Non ho confessato questo; – interruppe Filippo.
– Ma va da sè. Come puoi non amarla? Come si può non amarla?
– Sentimento generale, allora; – rispose Filippo. – È dunque molto generico, e impegna poco.
– No, caro; – riprese Raimondo. – Tutti debbono amarla, vedendola; ma uno è destinato ad amarla per tutti, avendo occasioni di avvicinarla, e ragioni di piacerle. Sei tu, assassino, del “non c'è male„, sei tu che la fortuna ha privilegiato; sei tu che hai ricevuto il colpo mortale. Tu dunque l'ami, è valuta intesa. Ma se te lo leggo in faccia! Sei tanto turbato a sentirne parlare! —
Filippo chinò la fronte, confuso. Troppo bene l'amico gli aveva letto negli occhi, meglio che non s'immaginasse egli stesso.
– Ma ti ho già detto che non voglio essere sospettato; – rispose Filippo dopo un istante di pausa. – Quella donna, se fosse vero quello che tu pensi di me, sarebbe sempre troppo ricca.
– Non c'è altro? – disse Raimondo.
– Mi pare che basti.
– E tu non potrai chiedere la sua mano, capisco. Ma se un altro la chiedesse per te? Io, per esempio. —
A quella uscita improvvisa, l'Aldini balzò sulla scranna.
– Spero bene che non lo farai; – diss'egli concitato.
Ma quell'altro non si scompose punto; anzi, guardando placidamente in viso l'amico, ripigliò:
– E se lo avessi già fatto?
– Tu? – gridò Filippo, impallidendo.
– Io, sì; che ci trovi di strano? Più strano fu il tuo “non c'è male„, mentre io avevo avuto il piacere di vederti così animato nella tua conversazione con quella cara fanciulla. —
Infastidito da quel ricordo, e da altri ancora, Filippo Aldini crollava il capo e batteva le labbra.
– Rinfacciami sempre una frase disgraziata! – diss'egli. – Dovevo rispondere che è un sole? che è un angelo?
– Eh, perchè no? L'avevo ben detto io, che pure amo mia moglie, e non conosco altra donna da metterle in paragone; potevi dirlo tu, che sei libero. —
Filippo rimase un tratto in silenzio, cercando argomenti che non volevano lasciarsi trovare. Infine, di guerra stracco, girò di fianco il punto difficile, ritornando alla sua prima linea di difesa.
– Sei curioso, col tuo modo di ragionare! – riprese. – Orbene, se pure avessi pensate tutte quelle belle cose, dovevo io dirle, lasciando scoprire Dio sa che orgogliose intenzioni? Dovevo in quella vece pensare che sarebbe stato un errore avanzarmi nella regione dei sogni. E mi son castigato, se mai, di un sogno pazzo, come quello che tu vorresti fare per me. Ma ti pare? Io, non sospettato finora, non sospettabile di calcoli così vili?.. Dunque ti prego, Raimondo, non mi parlar più del tuo sogno, e tralascia i buoni uffici che vorresti fare per me.
– Ti ho detto che ho già aperto il fuoco.
– Con lei?
– Con lei, no, con sua madre. Ma, per quello ch'io ne so, dev'essere tutt'uno.
– Tutt'uno! Che cosa ne sai?
– Questo, che la signora Eleonora ti vede di buon occhio, e ti stima moltissimo; intendi? moltissimo; è stata la sua parola. E aggiungo che la signorina Margherita ti ha lodato come un cavaliere compito, il primo ch'ella abbia ancora conosciuto, per ingegno, per cultura, per serietà, per buon gusto; e ti fo grazia del resto. —
Filippo si era lasciato andare, come sfinito, contro la spalliera della scranna; aveva arrovesciato il capo, e ad occhi chiusi meditava. Che cosa? Forse le parole di Margherita; forse la gravità del suo caso. Ah, quel prepotente Raimondo! faceva come voleva, senza chieder permesso, senza avvisare, e metteva lui negl'impicci.
Intanto, il prepotente Raimondo proseguiva la sua narrazione.
– Tornando alla signora Eleonora, le ho parlato a cuore aperto, esponendole la mia idea. S'intende che non potevo darla intieramente per mia, e che dovevo lasciarla credere un po' tua, anzi molto tua. Se ho fatto male, se ti ho compromesso, accoppami, o perdonami; ti lascio la scelta. Ma tu lasciami aggiungere che la madre è tutta per te; l'hai conquistata, pare. La buona signora, che tutti credono così orgogliosa, così piena di sè, è nel fatto una donna di gran buon senso, semplice di gusti e dotata di un ottimo cuore; non mi ha fatto altra osservazione che questa: “bisognerà parlarne a mio marito; ogni cosa dipende da lui„.
– Ah, vedi? – gridò Filippo scuotendosi. – Ecco qui, dove incomincia il difficile. —
Raimondo gli rispose a tutta prima con una spallata.
– Ma che difficile! – soggiunse poscia. – Che difficile mi vai tu sciorinando? Conosco l'uomo; è ragionevole, un vero filosofo, e pensa che la boria dei quattrini va lasciata agli sciocchi. Figùrati che al suo paragone io sia un mostro di superbia. Egli dunque non farà questione di denaro, te ne sto io garante. E poi, che si canzona? un partito come te non si trova ad ogni cantonata. Non ne convieni? Hai torto. Lascio stare la tua persona, per non offendere la tua modestia; le tue doti morali, non le vuoi mettere in conto? E il tuo titolo, che ha pure il suo prezzo? Non sei ricco; ma sei pieno d'onore. E poi, che cos'è questa ricchezza? Da dove si comincia a calcolarla? Tu hai finalmente dugentomila lire al sole.
– Dugentomila! – ripetè Filippo, tentennando la testa.
– Al quattro per cento, sicuro; – replicò Raimondo. – La tua piccola tenuta non ne rende forse ottomila? E ancora, se Dio vuole, sarà governata alla diavola, sfruttata in prima mano dal fattore, e in seconda mano dall'agente. Ci campano tutti, e non migliorano il fondo. Questo, frattanto, vigilato un po' meglio, può rendere dieci, dodicimila lire; ed allora tu ne possiedi trecentomila, sempre al quattro per cento. Potrai dunque garantire la dote di tua moglie, se, puta caso, la batterà dalle dugento alle trecentomila. Meglio ancora; quella dote, da uomo serio, tu non la sciupi; puoi convertirla subito in terre, allargando, raddoppiando il tuo fondo. E se ciò non basta, se la dote è più vistosa ancora, non sono qua io per far fronte?
– Tu? – disse Filippo, arrossendo fino alla radice dei capelli.
– Io, sì, io che son ricco, e per una volta tanto me ne voglio vantare; io posso aggiungere che tu hai, depositate al mio banco, centomila lire in cartelle di rendita.
– Una bugia! – esclamò Filippo, torcendo le labbra.
– No, caro; dipende da me che sia una verità. Tu non conosci l'amico tuo, lasciatelo dire; non sai fin dove, al bisogno, egli porti l'amicizia, e come la intenda. Ti parlo solenne, vedi? Ma tu mi trascini pei capelli. Sono senza figli; Dio non mi ha concessa questa felicità… se pure si ha da crederla tale; – soggiunse Raimondo, cercando consolazione dove poteva; – e poco sarebbe per me il perdere quella somma.
– Non permetterò che tu ne corra neanche il pericolo.
– Ma non la perderò; – riprese Raimondo, – poichè rimarrà nella mia cassa forte. Se tu m'annoi, bada, dirò che il tuo deposito è di dugentomila. Infine, senti, non mi far pena coi tuoi rifiuti, più orgogliosi che tu non pensi, più orgogliosi del sogno che non osavi fare, e di cui ti volevi castigare. Voglio il tuo bene; voglio vincere; Margherita è un angelo, e deve esser tua. Sono impegnato, dopo tutto; che figura farei, se dovessi rimangiarmi quello che ho detto? Sii ragionevole, amico; obbedisci a chi ti ama, e non lo far passare per un burattino. —
Filippo Aldini era stato lungamente zitto, come oppresso da quella valanga di ragioni, di esortazioni, di prepotenze. Ma bisognava rispondere qualche cosa; Raimondo era in attesa, smanioso, incalzante, con la tensione dello sguardo e col fremito delle labbra.
– E allora… – chiese Filippo, esitando, – dirai alla tua signora…
– Che c'entra lei? – gridò Raimondo, inarcando le ciglia dallo stupore.
– C'entra benissimo; – rispose Filippo, questa volta con accento più risoluto, staccando le frasi e battendo le sillabe. – La moglie è ricca di ciò che possiede il marito. E tu dovrai dirle che mi vuoi far ricco d'una parte, sia pur piccola, del tuo, e che io ho accettata l'offerta. Che cosa penserà ella? Che io sono un matricolato furfante, entrato destramente nelle tue grazie, in veste di amico sincero, coll'idea di accostarmi alla cassa. Infine tutto ciò che dovrei fare per compiacerti, mi diminuisce nella mia propria stima. Come oserò andare dalle signore Cantelli, dopo quello che hai detto alla signora Eleonora? Come oserò mettere ancora il piede in casa tua, dopo quello che dirai alla signora Zuliani?
– Oh Dio! – esclamò Raimondo, che incominciava a sentirsi scappar la pazienza. – La signora Eleonora sa da me che saresti andato da lei, e mi ha mostrato di gradire assai la tua visita. Non puoi farne di meno, senza passare per uno screanzato. Quanto allo scrupolo che hai per la mia cassa, siccome è una probabilità molto lontana che io debba fare al banchiere Cantelli il discorso che ti avevo accennato, è chiaro che io non ne debba parlare a nessuno, e molto meno a mia moglie, colla quale, del resto, io non ho mai discorso d'affari. Per tua norma, la casa e la cassa le ho sempre tenute separate; è l'unico modo perchè non si diano noia a vicenda. Sei contento? Non ancora, mi sembra. Ebbene, ritiro, se vuoi, mi rimangio l'idea di esserti utile al bisogno col mio denaro, che finalmente non avrei dovuto neanche metter fuori. Ti va, benedetto ragazzo? Ecco adunque appianata la gran difficoltà. L'essenziale è che tu vada dalle signore Cantelli. Faccio, se tu non vai, una figura barbina; e non la merito, com'è vero Dio, non la merito. Ma vediamo di appianare anche questa; – soggiunse Raimondo, cavando l'orologio per guardar l'ora; – sono le due e mezzo in punto; non hai da vedere i tuoi commilitoni prima delle quattro. Di qui in un volo siamo a San Marco; in un altro al Danieli, e facciamo questa visita insieme.
Filippo Aldini chinò la fronte rassegnato. Era preso, come in una morsa, dal suo prepotente amico. E lo seguì in istrada; ma non fu necessario di fare i due voli che Raimondo annunziava, perchè, riusciti dalla via del Telegrafo all'imbocco delle Procuratie, incontrarono le signore Cantelli davanti alle vetrine del Munster. La signorina Margherita andava per l'appunto dal libraio, in cerca di un'opera recente che desiderava di leggere. Qui, dunque, saluti e fermata; comperato il libro, e mandatolo all'albergo, le signore avrebbero fatto volentieri quattro passi per le viottole. Accompagnate, non temevano più di smarrirsi.
– Vi lascio il mio amico; – disse Raimondo. – Io mi ricordo di avere ancora una lettera da scrivere, per impostarla prima di sera. —
E se ne andò, felice, rifacendo la strada verso il suo banco. Il merlo finalmente era in gabbia.
– Ce n'è voluto, – pensava Raimondo, – ce n'è voluto, con quel cercatore di gretole. Ma vedete un po' come sono diversi gli uomini! C'è chi arraffa di qua e di là, e chi tiene costantemente le mani in tasca. Uno v'insidia giorno e notte la borsa; un altro, a cui la offrite, ve la sbatte signorilmente sul muso. Vogliamo credere che ci siano due razze umane, in natura? Ho letto non so più dove che ci furono uomini prima di Adamo sulla faccia della terra, e che ciò apparisce anche dal racconto della Bibbia. Dunque diciamo Adamitici gli uni, discesi dalla semenza di Adamo, e Preadamitici gli altri che non si sa donde siano mai capitati. Basta, andiamo a scrivere questa lettera, la quale mi par più che mai necessaria. Se, Dio guardi, la signora Eleonora non è forte di scrittura, mi lascia qualche cosa nella penna, non dicendo al signor Anselmo degnissimo tutto quello che occorre. Qui bisogna battere il ferro mentre è caldo. E tu passeggia, passeggia colle signore, mio preadamitico eroe. —
Filippo Aldini passeggiò infatti, e più lungamente che non prevedesse Raimondo. La signorina Margherita voleva osservar tante cose, ed era così lieta di assistere a tante gustose scenette di vita popolana! In verità, non si era mai divertita tanto come in quelle due ore. Peccato che fossero calate le ombre della sera, nell'inverno così fastidiosamente sollecite, per interrompere quella passeggiata piacevole e per rimandar lei con la mamma all'albergo. Ad ogni modo, erano già le cinque suonate quando Filippo si congedò all'ingresso del Danieli, ringraziato con effusione della sua gentil compagnia.
E i due commilitoni che lo aspettavano alle quattro? Filippo non ci pensò nè punto nè poco.
Esistevano poi davvero, quei due?
V.
Natura ed arte
Filippo Aldini era rimasto finalmente libero, reso alla solitudine de' suoi pensieri. Solitudine, non quiete; tanto la giornata era stata piena di commozioni per lui. Nè l'agitazione del suo spirito si chetò così presto, che non passasse ancora gran parte della notte insonne. Quante novità! e come, senza volerlo, senza prevederlo, si ritrovava egli lontano in poche ore dai forti propositi in cui gli era parso di non dover vacillare nè allora nè mai! Oh, infine che cosa poteva egli rimproverarsi? Raimondo aveva proposto e disposto, premeditato, combinato e conchiuso. Anche conchiuso? Almeno pareva; e dal modo come il suo prepotente amico aveva condotto fino a quel punto il negozio, era da credere che tutto oramai dovesse andargli a seconda. Che cosa valevano contro quell'audacia fortunata le ragioni di Filippo? Ed erano ragioni? Scrupoli, sì; e parecchi, e d'indole diversa. Ma non appariva in tutto ciò la mano del destino? I fati, fu detto dagli antichi, conducono i volenti, ma ancora e più trascinano i restii; che serve dunque il ribellarsi?
Nel fatto, egli era innamorato di Margherita più che non avesse lasciato dire da Raimondo, più che non avesse fin allora voluto confessare a sè stesso. Aveva ricevuto il colpo fatale fin dalla prima volta che la divina fanciulla gli era passata davanti agli occhi, con la mamma e con Raimondo Zuliani, sotto le Procuratie Vecchie, mentre egli stava per uscire dal Florian. L'aveva veduta fermarsi in piazza San Marco, alla solita scena dei colombi, che è il trastullo di tutte le signorine e di tutte le spose novelle appena giunte a Venezia. Alta e snella, con quella massa di capelli nerissimi che facevano spiccar maggiormente il candore perlaceo del viso; nettamente disegnata la flessuosa persona in mezzo a quello sciame di volatori, che le roteavano sul capo, o intorno alle spalle, quali avventandosi alle sue candide mani colme di grano, quali fermando il volo sulle sue braccia, per aspettare la volta loro; pareva una bella ninfa antica per “nuovo miracolo e gentile„ rivivente ai dì nostri, forse indegni di tanta fortuna.
E poi, due giorni appresso, quando meno se l'aspettava, le era stato presentato. L'aveva veduta da vicino; era stato costretto ad osservarla. Che grazia ingenua, su quel labbro! che nobiltà serena, in quell'occhio luminoso, sotto le ciglia lunghe più nero e più lampeggiante! in quella linea delicata del profilo purissimo, e in quella compostezza leggiadra della persona! Non più una ninfa antica, ma una dea veramente. Diana, o Minerva? C'era molto dell'una e dell'altra in quella stupenda figura, nel portamento, negli atti, nella espressione del volto.
Quei benedetti artisti greci, che avevano foggiate tante divinità femminili, deliberatamente chiusi nella ricerca di un'immagine spiccata, conforme al tipo che dovevano raffigurare, non avevano mai pensato a fondere in uno i due tipi, della bellezza rigidamente casta, sempre un po' acerba, quasi selvaggia, e della bellezza intelligente, più serena e più dolce. Sicuramente, quegli artefici insigni avevano cercate altre espressioni, plasmando altri simulacri di dee; ma tutte semplici, d'un carattere unico: Cerere, ad esempio, faccia contenta di buona massaia, colle pupille a fior di testa e colle palpebre abbassate, come a raccoglier lo sguardo sulle cose della terra; Giunone, maestà consapevole, cogli occhi bovini, che non andavano più là dalle bianche braccia, ond'ella era sempre stata orgogliosa. Quanto a Venere, celeste o terrestre che fosse, uscita appena dalla spuma del mare, o dai lavacri d'un bagno tiepido, era sempre la imagine di una donna, che doveva parlare ai sensi il linguaggio della bellezza; linguaggio possente, a cui non occorrono profondità di pensiero.
Quante sottigliezze! Ma gli passavano per la mente; e bisognava dirle, e bisognerà perdonargliele. L'Italiano, finalmente, imbevuto di classico latte, ha queste cose nel sangue. Margherita, agli occhi di Filippo Aldini, era bellezza perfetta di forme, avvivata da un lume ideale che prometteva tesori d'intelligenza elettissima. E l'amava, l'amava, con tutte le potenze dell'anima. L'amore è così; viene quando vuole, e quasi sempre contro il nostro volere. Avete formate le vostre abitudini; il vostro genere di vita, vi paia buono o mediocre, vi si adatta al raziocinio, come alla persona un abito vecchio: stimate di esser calmo, tranquillo, immutabile nei gusti e nelle consuetudini, perchè da un pezzo non avete avvertita la necessità di nessun cambiamento. Ed ecco, passa l'ignota sul marciapiede, arresta con uno sguardo distratto e fuggevole il vostro occhio abbagliato, v'inonda della sua luce, vi penetra del suo fluido magnetico, vi rende di punto in bianco tutt'altro da quello di prima. Buon per voi, se sono in quella imagine vittoriosa uniti i due tipi celesti, Diana e Minerva, casta bellezza e intelletto sovrano. Quantunque, armate come sono ambedue, non c'è da star troppo allegri; fanno due ferite ad un tempo.