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L'Immorale
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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Enrico Annibale Butti

L'Immorale / Racconto

PREFAZIONE

Trovo opportuno di premettere alcuni brevi comenti al racconto L’Immorale, oggi per la prima volta publicato in volume. Lo studio psicologico che ò inteso di svolgere, è – per la sua indole non volgare – quello che più specialmente m’à persuaso a non rifiutarlo, benché sia un frutto giovenile, forse ingenuo in qualche particolare, forse retorico e manierato in qualche altro, forse troppo incerto e spesso trascurato nella forma. Non dunque per il racconto in sé, che non à pure il merito d’un’assoluta originalità, mi è parso di poter ripresentare al publico questo lavoro, ma piuttosto per lo schietto intento morale che lo informa, intento che appar raggiunto – sopra tutto quando si consideri l’anno in cui fu scritto – con dei metodi estetici, i quali, ancora oggi, sono molto discussi e misconosciuti dalla maggioranza degli scrittori e dei lettori.

La questione della morale nell’opera d’arte narrativa mi à già occupato più volte, e fu soggetto d’un capitolo speciale nel mio libro di critiche Né odî né amori publicato su lo scorcio dell’anno 1892. Fin dal tempo in cui spargevo su per i fogli letterarî d’Italia le mie opinioni estetiche, l’utilità d’una intenzione morale, nel romanzo come nel dramma, è stata da me proclamata e difesa con tutte le forze e in ogni occasione nuova mi si fosse venuta presentando. Ritornare ora sul tema generale mi sembra dunque inutile; molto più che coloro i quali desiderano conoscere le mie idee in proposito, possono consultare il mio libro nel quale ò raccolto pressoché tutte le critiche da me stampate in questi ultimi anni.

Preferisco restringermi, in questa presentazione, alle considerazioni sul metodo usato nella seguente novella per sviluppare acconciamente il principio morale: metodo che ò seguito poi con più stretto rigore – se non con miglior forma – ne L’Automa e nel mio dramma Il Vortice: metodo che credo ancora (potrò ingannarmi) il più efficace per uno scrittore, il quale voglia dimostrarsi sollecito nello stesso tempo della moralità e della modernità dell’opera sua.

Fra tutte le forme, onde s’è voluto rivestire l’intendimento etico d’un lavoro, è sempre parsa migliore quella che dèsse chiaramente il concetto del premio al meritevole e della pena a chi aveva trascorso; cioè, alla realità della colpa, doveva corrispondere la realità della condanna; come il lettore o lo spettatore avevan visto materialmente l’uomo commettere il delitto o compire l’azione generosa, era necessario ne vedessero materialmente la punizione o la remunerazione. Tutto l’equilibrio tra le cause fisiche e gli effetti morali, o viceversa, doveva per tal modo essere chiaro, manifesto, direi quasi, palpabile nelle esteriorità della favola imaginata o, per ispiegarmi meglio, nelle apparenze del fatto che si narrava.

Il sistema era forse buono, perché era opportuno; ma à finito con degenerare in una gherminella di cattivissimo genere tesa ai lettori semplicioni in onta alla verità e alla dignità dell’Arte. Divenne, nelle condizioni odierne di raffinamento filosofico e di coltura scientifica sempre più estesi, grossolano e arbitrario, urtante in pieno contro la logica e la diretta osservazione della vita reale. Perdette così la sua unica ragion d’essere: – cioè la forza di persuasione e quindi l’efficacia d’insegnamento.

Che valore à infatti oggigiorno, come dettato morale, la circostanza fortuita d’una scoperta di reità in un personaggio colpevole, o il ritorno finale alla felicità e all’agiatezza d’un personaggio buono e generoso, perseguitato fino all’ultimo capitolo dal destino e dalla malvagità de’ suoi simili? Togliete la circostanza fortuita, che a una mente a pena dirozzata appare sùbito come una gratuita invenzione dell’autore, e ogni insegnamento viene di per sé stesso a cadere. Se il Manzoni, ad esempio, avesse risparmiata la vita a don Rodrigo e avesse fatto un po’ più coerente il suo Innominato, – ciò che non era fuori del possibile – certo la sorte de’ suoi umili Promessi Sposi e della moralità del suo romanzo sarebbe stata ben diversa da quella che fu. Ugualmente: una miriade di buoni libri, raccomandati per lettura proficua alla gioventù, attinge la sua preziosa onestà alla fonte della fantasia, non a quella sana della verità; ciò che diminuisce d’assai il loro valore d’opere morali, se pur non lo distrugga, per noi che abbiamo studiato e nei volumi dei positivisti e con le osservazioni quotidiane.

Non è questo, no, il metodo che noi vogliamo assumere per dare forza d’insegnamento etico ai nostri lavori. Esso ci arriva già troppo sfruttato dai predecessori, ed è omai divenuto, si può affermarlo senza tema, il privilegio dei componimenti scolastici e dei romanzi d’appendice. E poi non è alle masse che l’artista si rivolge con l’opera sua; ma a pochi cultori intelligenti ed educati, sopra i quali un siffatto metodo non può aver più alcun fascino e alcuna forza di persuasione. Perché dunque insistere in esso?

E perché (volendolo escludere, senza perciò cadere nell’errore fondamentale del verismo e un po’ anche del naturalismo, che fu quello di sfuggire ad ogni costo l’intento etico), perché non ricercare una via nuova e diversa di salvazione? Forse che la moralità è una regola astratta, ingegnosamente escogitata, arbitrariamente imposta, per infonder la quale in un’opera d’arte occorre proprio un metodo artificioso e determinato?

Ahimè, se gli ortodossi della letteratura si prendessero il disturbo d’occuparsi una volta tanto della questione morale, quale è posta nei libri dei filosofi moderni, si persuaderebbero forse che per essere moralisti in arte non è assolutamente necessario di fare della retorica o del puritanesimo, come non è necessario d’ammannire al publico favolette o favoloni ben combinati a edificazione degli uomini semplici e dei fanciulli! Lo studio conscienzioso della vita nelle sue più schiette manifestazioni è prodigo d’ammaestramenti etici quanto nessuna fantasia d’uomo saprà mai essere. La questione capitale è di studiare la storia d’un fenomeno non soltanto nella sua visione pittorica o nella sua curiosità e specialità di contingenze, ma ne’ suoi motivi e ne’ suoi effetti più lati e più profondi.

Allora la moralità dell’opera d’arte, sorretta da uno studio siffatto, scaturirà naturalmente dalle espressioni rappresentative dell’artefice, senza bisogno alcuno di violentare la verità o di rivestirla goffamente d’orpelli coreografici.

A questi principî mi sembra appunto informata la presente novella. Cercherò di dimostrare l’asserto, quasi immodesto, il più brevemente che mi sia possibile.

Se per tutti gli sforzi umani si può dire con sicurezza ch’essi non sono se non una tendenza faticosamente attiva al raggiungimento d’un benessere personale, che si chiama comunemente la felicità, – a maggior ragione si può questo affermare degli sforzi di coloro i quali, traviati da soverchia passione o da libidine immane di godimento, giungono a sfidare e a calpestare la morale e la legge, dirigendosi verso la mèta agognata per tenebrosi sentieri. Non è già al crimine, o alla semplice trasgressione che teoricamente si rivolgono i loro sforzi; è noto a qualunque persona sensata ch’essi tendono in vece alle utilità o al piacere che da quella trasgressioni o da quel delitto dovrebbero direttamente conseguire.

Questa è l’opinione volgare. Ora io affermo che anche l’opinione delle persone di buon senso s’arresta a metà strada nella ricerca dello scopo finale dell’atto, poiché dimentica come ogni bene o diletto sensibile non abbian valore alcuno se non in quanto acquetano in noi quel bisogno di sodisfazione, che ne à acceso il desiderio.

La ricchezza, gli onori, il credito, la supremazia, la gloria, e perfino gli stessi allettamenti sensuali e sentimentali dell’amore sono, è vero, i miraggi luminosi che ingannano la credula e ristretta ragione degli uomini, affaccendandoli tutti quanti in una gara sfrenata per impossessarsene; in verità però gli uomini, consciamente o più spesso inconsciamente, non anelano anche ad essi come ad un fine ultimo, ma bensì come a stromenti d’un fine più sostanziale. Questo fine, come ò già detto, è la felicità.

Può dunque avvenire – e nella vita non è caso raro e d’esperienza singolare – che il colpevole ottenga la vittoria totale, il coronamento in apparenza più felice dei propri disegni, senza perciò raggiungere lo scopo definitivo di essi; – di là appunto, cioè dal giorno in cui egli à occupato il posto dovuto alla sua audacia, à origine quell’importantissimo processo psicologico, che io ò cercato d’abbozzare e di lumeggiare nel presente racconto.

Di fatti ne L’Immorale la conseguenza esemplare della colpa, la necessità d’una espiazione non vengono estrinsecate con la fortuita scoperta della colpa stessa e quindi col crollo dell’edifizio laborioso e doloso; ma con la dimostrazione schiacciante che il miraggio di felicità, il quale sembrava dover risplendere fulgentissimo dalla riuscita del piano criminale, è invece, dopo il trionfo, svanito del tutto e per sempre.

A me sembra che questa soluzione, esclusivamente psicologica, sia nello stesso tempo artisticamente più simpatica e moralmente più significativa. I fatti intimi, siccome son quelli che si lascian meno sorprendere e seguire dall’osservazione comune, riescono più convincenti dei fatti esteriori; poiché le inevitabili contradizioni, che son prodotte dall’infinita varietà di rapporti e di contingenze, fanno apparir questi, – esposti all’assidua vigilanza del publico, – confusi, discordi, inconcludenti, casuali, rendendoli perciò inetti a servire d’esempio efficace.

È lo stesso motivo per cui un dettato morale risulta assai più saldo e rispettato se imposto dalle minacce d’una religione, che non dalle pene d’una legge, – cioè da un turbamento certo di conscienza, che non da un’incerta rovina materiale, sebbene più grave e spaventosa.

Il caso d’un colpevole vittorioso, mortificato dalla sua propria conscienza, mi sembra, per tutte queste considerazioni, che debba essere un esempio morale di gran lunga superiore al caso d’un colpevole sorpreso e punito dalla Giustizia degli uomini o dalla oscura volontà del Destino. A questo proposito, io credo che, riguardo al resultato etico, siano ancora insuperati nella loro intenzionalità i tragici greci; i quali mostravano bensì un delinquente come Oreste, uccisore della madre, assolto dall’Areopago, ma lo circondavano tosto d’un coro atroce di Furie, invisibile agli altri e instancabili nel dilaniarlo. L’acutezza ellenica aveva già intuito quanto oggi nel campo dell’Etica va man mano conquistando anco i più tardi e i più restii; che cioè le azioni umane, buone o malvage ch’esse siano, non ànno alcun valore in quanto son soggette a castigo od a premio; ma ne ànno uno grandissimo, quando si considerino nei loro effetti psicologici e nelle loro più profonde conseguenze morali.

Questo ò voluto rapidamente accennare, perché il lavoro che segue avesse quell’interpretazione, alla quale dò maggior peso e per la quale esso fu ideato.

Maggio 1894.

E. A. B.

I

Suonaron le dieci, lentamente, nell’ombra. Poco dopo i rintocchi si ripeterono più decisi, più rapidi nell’anticamera.

Enrico, dopo avere alcun tempo indugiato origliando tra i due battenti socchiusi, entrò cautamente nella stanza, avvolta in una densa penombra verdognola. L’aria v’era un po’ viziata, benché un diffuso profumo, misto di violetta, d’acqua di Colonia e di tabacco, vi signoreggiasse: v’era quell’odore speciale, direi quasi organico, che ànno le camere dove qualcuno abbia lungamente dormito; e un respiro lieve e alquanto irregolare annunziava appunto che una persona vi dormiva ancora serenamente in braccio all’onda dei sogni mattutini.

Il servo attraversò in punta dei piedi la camera, e s’avvicinò all’alta finestra, ch’era stata accuratamente rinchiusa ma lasciava da alcune connessure penetrare il giorno già avanzato, intersecando di lamine luminose l’oscurità. Aperse senza far remore le imposte; la luce verdognola delle persiane invase, diffondendosi, la stanza, e andò a frangersi nelle ricche dorature e nella lucidezza metallica degli specchi. Nel mezzo ergevasi, tra il lusso del cortinaggio di velluto, il letto di mogano artisticamente intagliato a foggia antica, e qua e là spiccavan varî mobili di diverso stile: una spera altissima rifletteva quell’eleganza un po’ chiassosa in una cornice ad alto rilievo, raffigurante nella base un canotto marinaresco, e negli stipiti, – da un lato, un amplesso di palmizî, i cui ciuffi larghi, protendendosi, componevan l’architrave, – dall’altro, un cespite di arnesi da pesca bellamente raggruppati. Sopra gli usci pendevano dei trofei guerreschi e dei massacri da caccia: dalle pareti, arazzi policromi a soggetti mistici e profani. Era un complesso di lussuosa ricercatezza, in cui, più che il gusto, si notava il desiderio esagerato d’accumulare oggetti ricchi e preziosi in poco spazio.

Enrico, spalancate le imposte, si rivolse e guardò il padrone che dormiva sempre, supino sul gran letto, il viso rivolto verso l’alto, – un viso fino, accurato, un po’ pallido, ma con un’espressione di calma dolcissima. Le dieci eran già battute da qualche minuto, e il servo aveva l’ordine di svegliarlo appunto a quell’ora. Egli s’accostò al letto, sostò alquanto di fronte all’inconsapevol serenità del dormente, poi si decise a scuoterlo dal letargo profondo, chiamandolo una prima volta leggermente, poi un’altra volta più forte.

– Signore!.. Signore!..

Paolo Érmoli si scosse d’un tratto. Aperse quanto poteva gli occhi, li fissò un po’ turbato in volto al servo.

– Signore, sono le dieci! – disse Enrico, impassibile come un’erma.

– Le dieci? – Paolo chiese senza capire.

– Le dieci, – ripeté il servo.

Paolo Érmoli si fregò gli occhi con un moto infantile, si stirò un poco le membra ancor torpide, poi, come un ricordo lieto gli fosse balenato nel pensiero, sorrise ed esclamò allegramente:

– Via, apri le finestre e lascia entrare un po’ d’aria.

Pronunziò queste parole con una così schietta espansione, come volesse dilatare i polmoni a un libero respiro in un’aria fresca e salubre per un istintivo bisogno di forte vitalità.

Enrico obedì prontamente; schiuse le vetrate, spalancò le persiane e un nembo di polvere d’oro precipitò nella camera. Il mattino d’aprile, tepido e chiaro (era il sabato santo), ostendeva al giacente un cielo temprato e puro, d’una trasparenza di cristallo cobalto; i fastigi bianchi delle opposte case riverberavan la gran luce, come fossero incandescenti, nella camera lussuosa, riempiendola tutta d’un chiaror gajo, quasi eccessivo.

Quella luce suprema, quell’aria primaverile, d’un tenue tepor d’ombra, esilararono ancor più il volto di Paolo; gli parve di specchiare in quel giocondo spettacolo mattutino, la rinascenza dell’anima sua; oh, anch’egli in quel giorno trionfava, dopo una lunga lotta combattuta contro gli uomini, e, vincitore, s’incamminava a ricevere il pallio sospirato della vittoria!

– Portami sùbito il caffè, – gridò Paolo con lo stesso accento di prima al servo, in aspettazion d’ordini su la soglia.

Enrico annuì silenziosamente, e uscì.

Paolo (avrà avuto trent’anni all’aspetto; era magro, ma roseo, con una breve barba a punta assai più bionda dei capelli arruffati) s’appoggiò ai cuscini, socchiuse gli occhi e s’abbandonò all’ebbrezza di quell’esaltazione orgogliosa. Ei si sentiva sodisfatto e felice, e, senza spingere l’occhio nel fosco passato, assaporava sensualmente il dolce benessere dell’ora presente. Non era stato forse il desiderio di tutta la sua giovinezza quell’opulenta indipendenza di vita che or mai poteva godere incontrastata? Senza pensare ai mezzi, con cui era riuscito a raggiungerla, egli si compiaceva ingenuamente nel sottile raffronto tra la condizion presente e gli anni trascorsi di torbide inquietudini e di diuturne umiliazioni; e gli sembrava d’essere uscito da una lunga battaglia, affrontata lealmente, dopo aver conquistato all’avversario le bandiere ed averne invaso trionfante le ubertose contrade. Provava quella stessa gioja orgogliosa che prova un capitano dopo una dura vittoria; e, come a questo, essa gli faceva dimenticare i caduti nella battaglia.

Attraverso però a quel miraggio di felicità materiale, s’insinuava a poco a poco, limpido e crescente, un pensiero più intimo, che forse lo riempiva ancor più dell’altro di dolcezza: uno di quei pensieri sentimentali, che commuovono le più indurite fibre e le più gelide anime, e che riusciva a risvegliare in lui, come per incanto, un cumulo di sensazioni e d’entusiasmi giovenili. Egli lo sentiva salire lentamente dal cuore e godeva di lasciarselo impadronire man mano della mente con la fresca prepotenza d’acqua sorgiva, che, gorgogliando fuor dalle rocce, sopra a queste si distenda e le nasconda nella metallica uniformità della sua lucida superficie.

Un sorriso d’estasi gli increspò le labbra e respirò con maggior forza. Poi chiuse gli occhi quasi per concentrarsi, e nell’oscurità rossastra gli si disegnò con una vaporosità di contorni soavissimi la squisita forma di donna Fulvia, la ricchissima vedova del conte Ateni, l’amante appassionata di Diego Rebeschi, il suo povero cugino. Oh! ella era pur bella, e sarebbe stata sua in quel giorno! Il fantasma allucinante di lei si deformò in un attimo, ma il pensiero lo ricostruì tosto e lo inseguì poi ancora lungamente.

Paolo cominciò a ideare la promettente giornata e a imaginarne con morbida compiacenza gli episodî. Fulvia doveva aver già ricevuto a quell’ora la preziosissima collana di perle, – il dono nuziale, – e doveva aver già letto la semplice e gentile iscrizione: Ora e sempre, che nell’oro del fermaglio egli aveva fatto incidere. Quando sarebbe andato da lei, ella gli avrebbe steso le due piccole piccole mani, arcuando leggermente indietro la flessuosa forma, quasi per mitigare quell’atto d’aristocratica confidenza; ed egli per la prima volta l’avrebbe tratta a sé vincendo la feminile renitenza e avrebbe deposto su quella limpida fronte il primo bacio.

Questa idea gli infocò le vene; sentì un brivido caldo salire dalle reni alla nuca, e, spronato dal desiderio, sorvolò su la insignificante cerimonia ufficiale delle nozze e sul breve viaggio, per correre con l’imaginazione al momento in cui si sarebbe trovato solo, libero e padrone di lei, nella suntuosa e poetica sua villa su le rive del Lario. E gli si presentò Fulvia mezzo discinta con i capelli neri sciolti su le spalle, gli occhi stranamente illuminati dalla prospettiva del piacere: e le indovinò sotto i pizzi ricchissimi, spumeggianti dallo slacciato corpetto, la rosea trasparenza del seno sobrio e sostenuto; e vagheggiò di tuffare la faccia in quel candor misterioso, d’onde doveva sprigionarsi intenso quel mite profumo di ylang-ylang, che nelle strette di mano ella gli aveva tante volte comunicato. Questa fantasia voluttuosa, per mezzo della quale Paolo tentava di prevenire il tempo, lo travolse così co’ suoi fascini deliziosi ch’egli si diede a sviscerare in tutte le più segrete raffinatezze la scena gaudiosa, e vi si appassionò tanto ch’essa finì a prendere l’aspetto veritiero del sogno.

Enrico, recando il caffè, entrò, sempre in punta dei piedi, per l’abitudine mattutina di metter ordine nel quartierino da scapolo senza risvegliare il padrone: e al romore dell’uscio che s’apriva, Paolo Érmoli riaperse gli occhi, si scosse, si levò ancora a sedere, abbandonando la sua fantasticheria di felicità.

– L’ài fatto molto forte? – chiese per obedire al bisogno spontaneo di espansione, ond’era quasi inebriato.

– Come al signore piace! – rispose il servo.

– Bravo Enrico! – aggiunse Paolo, fregandosi le mani allegramente.

Enrico, poco abituato a quella familiarità quasi affettuosa, lo guardava stupito, ritto presso il letto, stendendogli la tazza fumante.

L’Érmoli la prese in mano, e rimase alquanto ad ammirarla.

“Ecco un oggetto d’arte„ pensò, “e serve per una delle più insignificanti occupazioni della mia vita quotidiana! Io lo stringo un istante nelle mie dita, l’appoggio a pena alle mie labbra, poi lo riconsegno al domestico, e la sua missione per la giornata è finita; eppure un artefice non mediocre vi à stillato un po’ del suo ingegno, vi à speso un po’ della sua vita, vi à giocato un po’ del suo amor proprio!„

L’Érmoli si sentì profondamente lusingato da questa idea: ricordò involontariamente la disadorna tazza, nella quale soleva prendere il quotidiano caffè e latte in quel bugigattolo di via S. Paolo, quand’era un semplice reporter del giornale Il Progresso: percorse con un rapido sguardo la sua vita e giunse fino al momento presente. “Sono stato forte!„ pensò, e si diede a sorbire voluttuosamente la bibita nera.

– Irreprensibile! – esclamò, deponendo la preziosa chicchera sul bacile d’argento.

Il servo sorrise di compiacenza.

– Il signore à qualche ordine da comunicarmi, – chiese poi rispettosamente.

– Sì: di’ a Cesare d’attaccare Leda alla victoria, fra un’ora.

Il servo non era ancora uscito dalla camera, che Paolo Érmoli era già ritornato su le considerazioni intorno alla tazza, avido di prolungare il piacere che gli avevan suscitato nell’animo. “Chi più gode, più vive, perché il piacere, come perpetua la vita nella specie, così l’accresce nell’individuo„: continuò concatenando i pensieri dell’oggi ad antiche memorie di pensieri; e, ricordando i dolorosi ragionamenti che aveva fatti su la singolar condizione di certi uomini, e le stridenti ingiustizie che aveva maledette nei tristi tempi passati di lavoro e d’indigenza, provò come una vertigine d’ineffabile e profonda sodisfazione mentre volgeva lo sguardo per la camera elegante, su quegli arazzi preziosi, in cui madonne e santi, fanti e cavalieri sembravano affollarsi intorno a lui per rendergli umile omaggio. “Io sono nato povero e abjetto„ pensò, “ma qualche cosa già doveva esserci in me di prepotente, di nobile, d’eletto, che m’avrebbe guidato alla vittoria.„ E cinicamente ripeté ad alta voce le parole del giovine Garibaldi: “Noi eravamo destinati a cose maggiori.„

L’idea fatalistica s’impadroniva di lui: riandando le crisi terribili della guerra scellerata, che aveva dato alle consuetudini sociali, egli aveva bisogno di quel fatalismo per ispiegare in faccia alla conscienza morale la sua condotta; egli era di quelli nati per trionfare, per soggiogare, per abbattere, come gli animali da preda, felis homo, e aveva egregiamente rappresentato la sua parte tirannica nella comedia della vita. “Sono onesto io?„ si domandò egli improvvisamente, turbato da un dubbio inconcreto e affatto teorico. Egli poteva farsi sinceramente questa domanda, perché il male l’aveva fatto dopo essersi convinto che il Male non esisteva. “Che cos’è infine l’onestà? O è un principio regolatore assoluto, o è un’opinione relativa e personale su la condotta umana; io non credo nei principî assoluti e, se è un’opinione relativa, io posso essere onesto. È una legge, dura, se si vuole, ma altrettanto immutabile, quella che il superiore vince l’inferiore nella lotta dell’esistenza: se l’uomo è fisicamente più debole, e non ostante abbatte il leone, è perché à saputo convenientemente armarsi: si dirà perciò che la sua condotta non è onesta? Io sono nato in condizioni d’inferiorità materiale, e volendo vincere, ò dovuto armarmi: ma se mi sono armato, è perché dovevo vincere.„

L’idea fatalistica risorgeva, più solenne, più logica. – Perché dunque la sua fronte si corrugò, come attraversata da un pensiero molesto? Perché le sue labbra s’inarcarono ad un sogghigno triste e amaro?

Egli rimase alquanto tempo immobile, in quell’espressione ambigua e bieca di cordoglio. Ma la giornata era troppo pura e la felicità troppo imminente, per lasciarlo a lungo in preda a quella perplessità. Allungò il braccio e prese sul tavolino l’astuccio d’oro gemmato delle sigarette: ne tolse una, l’accese e, accomodati i cuscini sul capezzale, vi si appoggiò a suo agio.

“Io sono stato forte!„ ripensò inseguendo con l’occhio le mobilissime forme di fumo, che s’espandevan fragili nell’aria. “La scienza stessa à le sue vittime: non deve aver le sue l’egoismo? E sono forse queste sostanzialmente diverse da quelle?„

Nella camera l’aria primaverile aveva portato il complesso e inebriante profumo degli alberi in fiore: Paolo Érmoli respirava largamente quell’aria ossigenata, e sentiva la gioja diffondersi per il sangue copiosamente avvivato.

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