bannerbanner
La montanara
La montanara

Полная версия

La montanara

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
Добавлена:
Настройки чтения
Размер шрифта
Высота строк
Поля
На страницу:
2 из 7

Il servitore avrebbe potuto accompagnarlo fino a Pievepèlago ed anche fino a Fiumalbo, dove, per andare a Querciola, sarebbe bisognato abbandonare la strada maestra. Ma il conte Gino preferì che Giuseppe ritornasse a Modena, tanto gli premeva di mandar sue notizie alla marchesa Polissena. E là, nell'osteria di Paullo, sopra un foglietto di carta, strappato dal suo taccuino, scrisse pochi versi a punta di matita. Avrebbe potuto scrivere una lettera; ma sarebbe riescita troppo voluminosa, e il vecchio carbonaro non avrebbe saputo dove nasconderla, mentre un bigliettino, convenientemente arrotolato, poteva celarsi da per tutto, anche in una cucitura ribattuta degli abiti.

Il biglietto del conte Gino alla marchesa Polissena diceva brevemente così:

«Saprete il caso che mi è toccato. Mi mandano a confine in Querciola, alle falde del Cimone, fuor del consorzio dei viventi… peggio ancora, lontano da Voi. Ne perderò la ragione; non mi parrà di vivere, fino a tanto non riceverò una vostra lettera. Il portatore di questo foglio mi è affezionato, e in qualunque modo mi farà avere i vostri caratteri. Addio! Mi si spezza il cuore, nel dover scrivere questa triste parola. Speriamo di mutarla in un arrivederci, e presto! Vi amo.»

Suggellò il biglietto, dopo averlo piegato più stretto che potè, e lo consegnò al fido Giuseppe.

– E dimmi, – gli soggiunse, – potrai farmi avere ad ogni modo la risposta?

– Non dubiti, illustrissimo; se una risposta ci sarà, gliela manderò certamente.

– Troverai persona fidata e sicura?

– Troverò tutto; Ella non si dia pensiero di ciò.

– Ad ogni modo, mi scriverai anche tu?

– Sì, illustrissimo; purchè Ella non rida della mia mano di scritto e dei miei errori d'italiano.

– Va là! – disse Gino. – Tu pensi da buon italiano, e questo è l'essenziale. —

Dopo di che, il giovanotto abbracciò il servitore e s'incamminò per la via dell'esilio. Erano le cinque dopo il meriggio, quando egli giunse a Fiumalbo, e salutò la petrosa balza del Cimone, tinta di rosso dai raggi obliqui del sole, che andava a nascondersi dietro l'Alpe di San Pellegrino.

Capitolo II.

I re della montagna

Il Monte Cimone, alle cui falde era confinato il conte Gino Malatesti, è la più alta vetta dell'Appennino centrale. Duemila centocinquantasei metri sul livello del mare non sono ancora l'altezza del Monte Bianco; eppure il Cimone è debitore a questa sua elevatezza metrica di esser chiamato il Monte Bianco degli Appennini; modesto e generoso Monte Bianco, che per uno o due mesi dell'anno si lascia togliere dalla calva cervice il suo berretto di neve.

Alpestre, poco agevole ai piedini d'una bella signora delle nostre città, è il fianco del vecchio Cimone; ma la sua salita non offre difficoltà all'alpinista che all'ultimo passo, quando occorre, per guadagnarne la vetta, inerpicarsi sul petroso cono formato dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. Ho detto il petroso cono, e infatti il Cimone presenta da lungi la forma di un cono, rozzamente tagliato, con la vetta spuntata in un pianoro, che ha forse cento metri di giro. A greco il balzo è più scosceso che dalle altre parti, e al piè della roccia, dove incomincia a distendersi il Pian Cavallaro, sgorga la Beccadella, una ricca fonte che basterebbe da sola a far girare la ruota d'un mulino. E quella fonte non è la sola, nè la più alta del monte. Ce n'è qualche altra più in su, verso levante, dalla parte del Cimoncino, con grande meraviglia dei signori naturalisti, a cui, più della salita, riesce arduo di spiegare una così alta origine di copiose sorgenti.

Invito i miei lettori ad una ascesa che non sarà senza compensi. Bolognesi e Modenesi non si terrebbero per alpinisti, se non fossero andati almeno una volta lassù. Le limpide mattinate son rare, pur troppo; ma quando il vecchio Cimone non ha il suo cappello di nuvole, quando sul piano, dintorno a lui, si diradano le nebbie, la veduta è stupenda, dall'Adriatico al Tirreno, dalle Alpi tirolesi, svizzere e francesi, fino alle Maremme e alle isole dell'Arcipelago toscano.

Mentre noi abbiam fatta l'ascensione del monte, il nostro viaggiatore è smontato alle prime case di Fiumalbo. Di là, per andare a Querciola, il conte Gino doveva lasciare la strada maestra e piegare a sinistra, ma per una via meno agevole e con altri mezzi di trasporto. Perciò, consigliato dal vetturino, era disceso davanti alla porta d'un molino, dove una frasca indicava che il mugnaio faceva a ore avanzate anche l'oste, e dove molto probabilmente il nostro Gino avrebbe anche potuto trovare una cavalcatura e una guida per andare a Querciola. Smontato, adunque, e accolto con tranquilla urbanità dal mugnaio, chiese tutto ciò che gli bisognava, incominciando dal desinare.

L'oste mugnaio nuotava nell'abbondanza; ma non aveva lì per lì nulla di pronto. Se il viaggiatore poteva aspettare, egli sarebbe andato a cercare una gallina sul prato, dietro alla casa, e la sua donna non avrebbe indugiato troppo a fargli un brodo conveniente. Ma il conte Gino sentiva gli stimoli della fame, e di una fame da viaggiatore che ha ventisei anni. In pari tempo, sentiva dalla cucina un grato odore di lardo. Il mugnaio cuoceva la minestra per la famiglia. Orbene, e non si poteva mangiar di quella, senza aspettare il brodo di là da venire? Se c'erano delle galline, sicuramente non mancavano le uova. Egli dunque avrebbe sorbito un paio d'uova calde, e magari due paia. Un pezzetto di cacio sarebbe bastato per finire il suo pranzo, che a quell'ora, con quell'aria, e dopo tante ore di viaggio, si poteva chiamar luculliano.

– Se si contenta Lei, facciamo pure così; – disse il mugnaio. – Teodemira, una tovaglia di bucato e una posata al signore. Badi, sono di ottone, le posate.

– Tanto meglio; – rispose Gino. – Sembreranno d'oro. —

La minestra fumante venne in tavola, e il nostro eroe assaggiò la minestra. Era buona, e sarebbe anche stata migliore, se dalla cappa del camino non fosse caduto un po' di fuliggine entro la pentola scoperchiata. Non crediate che il conte Gino la respingesse per così piccolo guaio. L'elegante giovanotto, lo stomaco delicato, che si era già adattato benissimo al condimento montanaro del lardo, si contentò di ritirare con la punta del cucchiaio i grumi di fuliggine galleggianti sulla liquida superficie. Che cos'è infine la fuliggine? Fumo di vivande, condensato lungo le pareti di un camino. Gli antichi, nei loro sacrifizî, in cui erano insieme sacerdoti e cuochi, non offrivano forse il fumo agli Dei?

Mentre il conte Gino attendeva a quella cura, e non senza ridere un pochino del caso suo, un nuovo personaggio entrò nella sala. Era un giovinotto alto e bruno, vestito d'una cacciatora di velluto verde d'oliva; portava le uose di cuoio alle gambe, teneva ad armacollo un bel fucile a due canne, e sulla testa un cappellaccio nero di feltro. Ma questo, da uomo bene educato, se lo levò subito, alla vista del forastiero, scoprendo una capigliatura folta, ricciuta e nerissima.

– Oh, signor Aminta, buon giorno! – disse il mugnaio, andandogli incontro, con atto rispettoso.

– Buon giorno, Gasparino! – rispose quell'altro. – E il grano?

– Per domani, signor Aminta.

– Come? Ancora domani?

– Che vuole? Era tanto! Venga a vedere e si persuaderà. —

Il cacciatore entrò nel mulino, seguendo il mugnaio, e il conte Gino non lo vide più ricomparire nella sala. Stava per finire la minestra, quando il mugnaio ritornò presso di lui.

– Ebbene, – gli disse Gino, – avete pensato alla cavalcatura e alla guida?

– Sissignore, – rispose il mugnaio, – e siamo abbastanza fortunati, perchè il signor Aminta ci pensa egli.

– Chi è il signor Aminta?

– Quel giovane cacciatore che ha veduto poco fa.

– Che, forse dà cavalli a nolo?

– Nossignore, non ne ha bisogno. È il figlio del re della montagna. —

Gino credette lì per lì che il mugnaio gli raccontasse una favola da bambini.

– Caspita! – esclamò. – C'è un re della montagna, qui? E vive nei dominî di un semplice duca?

– Sicuro; – rispose il mugnaio, sorridendo alla celia. – I Guerri si chiamano così, nel nostro paese, tanto son ricchi. Tutto ciò ch'Ella vede dal monte Cimone all'alpe di San Pellegrino appartiene ai Guerri.

– Ah, capisco; – disse Gino. – Perciò li chiamate i re della montagna. E come mai il figlio del re, senza che io abbia avuto l'onore di essergli presentato, si degna di mandarmi una mula e una guida per Querciola?

– Gli ho detto che Vossignoria doveva andare lassù, e il signor Aminta s'è offerto a servirla. Quanto alla presentazione, non ce n'è proprio bisogno. In questi paesi ogni forastiero che arriva è un ospite dei Guerri. La conoscenza, poi, la faranno per istrada.

– Bene! – conchiuse Gino. – Seguitiamo gli usi di questo paese. E datemi le uova, frattanto; non vorrei far troppo aspettare il figlio del re.

– No, scusi; – replicò il mugnaio: – non le posso dar altro. Il signor Aminta se l'avrebbe a male.

– Perchè? Non devo dunque mangiar altro?

– Per ora no, se non le dispiace. Il signor Aminta è escito per mandare l'avviso a casa sua, dov'Ella troverà assai meglio di quello che può offrirle la nostra cucina.

– Oh diamine! È grossa. Eccomi dunque invitato per forza.

– Qui è l'uso, quando passa un forastiero sul territorio dei Guerri.

– Ma qui, scusate, sono in paese abitato.

– Ha ragione; ma il mulino appartiene ai Guerri.

– Ed io mi trovo sul territorio del re, non è vero? – disse Gino, ridendo. – Ma sapete che è un uso piacevolissimo, e che tutti i re dovrebbero introdurlo nei loro Stati? Ottima istituzione, questi re della montagna! Passa un forastiero, in queste gole, e lo invitano a pranzo. Una volta si usava altrimenti; il forastiero, che si arrisicava in questi passi, era invitato bensì, ma a buttarsi con la faccia a terra, e lo svaligiavano senza misericordia. A proposito, e le mie valigie?..

– Le ha fatte prendere il signor Aminta.

– E per che farne, di grazia?

– Per mandarle a casa sua.

– Di bene in meglio! – esclamò Gino, che non sapeva se dovesse ridere, o andare in collera.

Ma perchè andare in collera, poi? Era venuto a cascare nei dominii d'un re, e quel re non somigliava punto al duca di Modena, suo riverito padrone. Questi lo discacciava, quell'altro lo accoglieva. In una cosa sola si manifestava una specie di analogia tra loro; ambedue facevano quel che volevano, senza consultare l'intenzione dei sudditi.

– Io, per altro, – soggiunse Gino, come ultimo atto di protesta, – debbo andare a Querciola.

– Che ci vuol fare, a Querciola? – disse il mugnaio, crollando le spalle. – È un paesaccio.

– Sia quel che gli pare; debbo andarci e ci andrò; – rispose Gino. – Mettete che io abbia da farci degli studi.

– In questo caso potrà sempre inerpicarsi lassù ed arrivarci in un'ora di cammino. Ma, come abitazione, si troverà meglio dai Guerri.

– Dai Guerri? Chi sono i Guerri?

– Gliel ho detto poc'anzi: la famiglia del…

– Ah sì, lo ricordo ora, del signor Aminta. Ed anche non ricordandolo, dovevo immaginarmelo.

– Hanno un alloggio molto comodo; – rispose il mugnaio.

– Lo capisco; – disse Gino. – Sarà una reggia, se i padroni sono i re della montagna. E voi mi dite che in un'ora si può andare a Querciola?

– Dalle Vaie, sicuro.

– Le Vaie! Che cosa sono le Vaie?

– Il luogo di abitazione dei…

– Basta, ho capito anche questo; – interruppe Gino, ridendo. – Caro amico, vi ringrazio delle vostre informazioni, che finiscono tutte ad un modo, come i salmi. Non mi resta ora che di pagarvi il conto.

– Perdoni, signor mio; – disse il mugnaio, schermendosi.

– Come? Non si usa pagare il conto, alla vostra osteria?

– Si usa, sì; ma in questo caso… Ella non ha mangiato che una cattiva minestra… E poi, il signor Aminta non permetterebbe.

– Ah, per tutti i… re della montagna, ed anche della pianura, questa è grossa davvero. E se io volessi darvi uno scudo…

– Quando Vossignoria lo volesse ad ogni costo… – rispose l'altro, facendo bocca da ridere.

– Ah, finalmente! – gridò Gino, mettendo mano alla borsa. – Ne vinco una io, sul vostro signor Aminta. —

Pagato a quel modo lo scotto, il conte Gino escì dall'osteria, per avviarsi sulla strada che avevano già presa le sue valigie. Quasi sarebbe inutile il dire che lo guidava il mugnaio, poichè egli, ignaro affatto dei luoghi, non avrebbe saputo da qual parte voltarsi.

Passarono sopra un ponte di legno il ruscello che forniva l'acqua al mulino, e di là presero a salire un sentiero largo e sassoso in mezzo ad una boscaglia di cerri, rada nei tronchi, che apparivano grossi e diritti, ma folta in alto, per la diffusione dei rami.

I cerri sono le quercie delle alte convalli, dove il freddo regna più a lungo. Robusti e previdenti, hanno la corteccia più fitta, e le loro ghiande portano il cappuccio lanoso.

Il conte Gino aveva fatto appena un cento metri di strada, quando attraverso i radi tronchi dei cerri vide discendere dall'erta uomini e cavalli.

– To'! – diss'egli. – Una cavalcata. Com'è pittoresca!

– È il signor Aminta che ci viene incontro; – rispose il mugnaio.

– Sempre Aminta! – gridò il conte Gino. – Caro mio, Torquato Tasso dovrà esservi molto riconoscente.

– Chi è questo signore? – domandò candidamente il mugnaio.

– Il padre di Aminta; – rispose Gino.

– Scusi, – replicò quell'altro, sicuro del fatto suo, – il padre del signor Aminta si chiama Francesco. —

Gino diede in una matta risata, e il mugnaio pensò ch'egli fosse matto davvero, volendo sbattezzare il signor Francesco Guerri, per chiamarlo Torquato. Ma rise anche lui, vedendo ridere il suo compagno di viaggio.

Il nostro giovanotto era di buon umore, e la cosa vi parrà singolare, in mezzo a tanti dolori che lo avevano accompagnato sulla via dell'esilio. Ma io già ve l'ho detto, Gino Malatesti aveva ventisei anni. Aggiungete la novità del caso, che lo faceva ospite per forza di gente che non lo conosceva affatto, e che egli conosceva anche meno. E poi, non dimenticate la bella natura, questa regina sempre giovane e lieta, che fa anch'essa ogni cosa a suo modo, e che, dentro la cerchia del suo regno, per un giorno almeno, ha potestà di giocondare gli spiriti.

La cavalcata intravveduta da Gino si componeva di due soli cavalli. Sul primo torreggiava il signor Aminta; l'altro era condotto a mano da un famiglio.

Come fu a venti passi da Gino, il signor Aminta balzò leggero di sella e gli mosse incontro a piedi.

– Perdoni la libertà grande; – gli disse, scoprendosi. – Gasparino le avrà già detto…

– Sì, mi ha detto molto; – rispose Gino. – Ma io non so veramente con qual diritto dovrei dare tanto incomodo a Lei… ignoto come sono…

– È un viaggiatore: è un ospite; – replicò l'altro, con bella semplicità di parole.

– E non sa ancora il mio nome; – soggiunse Gino, disponendosi a fare la sua presentazione da sè.

– Avrà tempo a dirlo, se vorrà; – disse Aminta. – Gasparino mi aveva accennato che Ella si reca a Querciola, per passarci alcuni giorni.

– Che potrebbero esser mesi; – replicò Gino.

– In quel luogo! – esclamò l'altro. – Ma ci sarà da morire d'inedia.

– Necessità, signor mio! – rispose Gino, stringendosi nelle spalle.

– Rispettiamo la necessità; – disse Aminta, inchinandosi. – Ma non c'è posto per Lei, a Querciola. È un paese di caprai, e non ci son famiglie, ch'io sappia, le quali possano offrirle una ospitalità pur che sia.

– Pure, debbo andarci; sono costretto! – disse Gino, sospirando.

– Ci andrà domani, doman l'altro, quando le piacerà; – rispose il signor Aminta. – Per ora si degni di smontare da noi.

– Non abuserò della sua gentilezza?

– Che dice Ella mai? La nostra casa sarà onorata della sua presenza. Del resto, – soggiunse quel principe ereditario, – che ci staremmo a far noi in queste alte solitudini, se, quando ci arriva un forastiero, non lo accogliessimo a festa? Aggiunga, signor mio, che altrove starebbe peggio che da noi. La vita è dura, tra questi monti, in mezzo ad una gente buona e leale, ma rozza…

– Non mi pare, non mi pare; – interruppe Gino. – Si fermi almeno alle buone qualità, se non vuole aggiungerne delle altre. —

Il signor Aminta ringraziò col gesto, e additò al forastiero il cavallo che era stato condotto per lui. Anzi, per colmo di gentilezza, volle mettersi egli stesso dall'altra parte, per offrirgli le redini.

Gino non aveva bisogno d'aiuti, e lo dimostrò subito, balzando in sella con una grazia di cavaliere perfetto. Nella perfezione del cavaliere c'entrano anche, lo immaginate, i ventisei anni di cui lo ha privilegiato il suo atto di nascita.

Il cavallo di Gino Malatesti era un bel rovano, di larga cervice e di garretti robusti, con due occhioni intelligenti e gli orecchi tesi, che indicavano una serietà di nobile animale, non ignaro della importanza degli uffici a cui è destinato. Gino gli palpò amorevolmente il collo, e n'ebbe in risposta un nitrito di soddisfazione.

– Strano! – diss'egli. – Non mi aspettavo di trovar cavalli, in queste balze.

– Cavalli di montagna, signor mio; – rispose Aminta. – Sono addestrati a correre per i greppi, e son saldi di passo come le mule. —

Aminta era montato in sella anche lui, e andava primo, per insegnare la strada. Così salirono l'erta del monte, e di là dalla boscaglia dei cerri il conte Gino vide una piccola valle, con un'altra costiera, vestita da un'altra boscaglia. Ma lassù, dalle vette dei faggi e delle quercie, appariva un campanile; e accanto al campanile una mobile striscia di fumo indicava la presenza di una casa. C'era abitato, lassù, e i bisogni dello stomaco e quei dello spirito potevano esservi soddisfatti egualmente.

– È là; – disse il signor Aminta, voltandosi al forastiero e additando il campanile. – Fra dieci minuti ci siamo. —

Andando avanti, e girando intorno alla macchia, si scopriva un po' meglio il paese. Là, dietro il campanile, era un ceppo di case, le une a ridosso delle altre, male ordinate e di misero aspetto. Anche la chiesa doveva essere una povera cosa, a giudicarne dal campanile, corto, gobbo e tutto sbrendolato nell'intonaco. Ritornando alle case, d'intonaco non si vedeva pur l'ombra; erano tutte murate a falde di macigno, ed apparivano così nere, da lasciar credere che tra pietra e pietra non fosse stata neanche messa la calce. Un po' meglio in assetto era la via che conduceva all'abitato, e questa parve a Gino una buona testimonianza della cura che i re della montagna avevano dei loro cavalli.

All'ultima svolta della strada gli si mostrò finalmente la chiesa, in tutta la sua maestà decaduta. Il finestrone della facciata aveva avuto in altri tempi una cornice di stucco, e certamente un cornicione doveva aver collegato il timpano alla gronda del tetto; ma cornice e cornicione erano spariti da un pezzo. Anche il muro, nella parte superiore, era tutto scrostato; solo nella inferiore, accanto alla porta d'ingresso, durava ancora ne' suoi contorni di rosso mattone un san Cristoforo seduto, col bambino Gesù posato sulla sua spalla destra, e con la mano levata. In atto di benedire i popoli, o di prendere al Santo una ciocca de' suoi capegli rabbuffati? Il pittore aveva lavorato in modo da lasciar adito a tutt'e due le supposizioni, e magari ad una terza. O san Cristoforo delle Vaie! nobile tipo di taglialegna, certamente copiato sulla faccia del luogo! Voi eravate enorme, come vuole la leggenda. Bontà vostra, che restavate seduto (o inginocchiato, non rammento più bene); se no, sfondavate con la testa la gronda del tetto.

Il Gino ammirò san Cristoforo e tirò via, seguitando il compagno. La via, rasentando il fianco della chiesa, si faceva più stretta, poichè sorgeva dall'altra parte una casetta di due piani, fatta a capanna, con una piccola scala all'aperto. Sull'ultimo gradino di quella scala era seduto un prete, magro ed ossuto, che portava in testa, scambio del berretto a tre spicchi, una papalina di velluto nero, e se ne stava là in osservazione, beatamente traendo boccate di fumo da una vecchia e corta pipa di Gessèmani.

– Don Pietro, buona sera! – disse il signor Aminta passando, e levandosi il cappello. – Viene da noi?

– Dopo cena, sicuramente.

– Perchè non prima?

– Caro Aminta, la pentola è al fuoco, e non bisogna mancarle di riguardo. Poveraccia! È quella di tutti i giorni, e un sentimento di gratitudine comanda di esserle fedeli. Non vi pare?

– È giusto, è giusto; – disse il signor Aminta. – A più tardi, dunque; e buon appetito.

– Non manca mai, quello! Altrettanto a voi e al vostro compagno di viaggio. —

Così dicendo, Don Pietro si alzò a mezzo, levandosi la sua papalina dal capo.

Gino rese il saluto, e disse frattanto in cuor suo:

– Ecco qua: noi ci lagniamo di dover vivere nelle nostre città capitali, che hanno il grave torto di non rassomigliar tutte a Parigi. E qui, e in tanti luoghi consimili tra i monti, vive un popolo industre e buono, che si contenta de' suoi villaggi appollaiati sui greppi, nè sembra accorgersi che le sue abitazioni sono catapecchie e stamberghe. Anche qui ci sono i ricchi, i potenti, e si adattano al modesto costume dei padri loro. Non manca neppure il re, e questo re della montagna molto probabilmente non possiede le querci per sedercisi sotto, a render giustizia, ma per tagliarle via via e mandarle ai lontani cantieri. Qui non saranno ricercatezze di cibo, non salse, non intingoli; ma pezzi di cinghiale, uccelli di passo, quarti di bove o d'agnello, arrostiti all'omerica, e magari serviti in piatti di argilla, su d'una tovaglia di canapa. Ma che importa? Sono felici egualmente. —

Così andava almanaccando, e gli ricorrevano alla mente i bei versi di Bernardo Tasso, intorno alla vita campestre:

O pastori felici,Che d'un picciol poder lieti e contentiAvete i cieli amici,Nè di mar paventate ire o di venti!Noi vivemo alle noieDel tempestoso mondo ed alle pene;Le maggior' nostre gioieOmbra del vostro bene,Sono di fiele e d'amarezza piene.

Questo è su per giù il ragionamento che tutti fanno, quando, sottratti al fascino delle città rumorose, si trovano al cospetto della santa natura. Non bisognerebbe per altro che la cosa durasse! A buon conto, Gino Malatesti ricordava tutte queste belle cose, per conchiudere che i re della montagna dovevano vivere anch'essi maluccio.

Il suo monologo fu interrotto dalla fermata del signor Aminta. Quaranta o cinquanta passi più su dalla chiesa e dalla canonica che vi ho descritta, sorgeva la casa, o, per dire più esattamente, il ceppo di case che Gino aveva veduto da lungi, sovra il colmo dell'erta. Erano parecchi tetti raccolti in pittoresco disordine attorno ad un tetto più alto. La fabbrica di mezzo, la più grossa, senz'essere niente più intonacata delle altre, manifestava certe sue pretensioni signorili, nell'ordine doppio e abbastanza regolare delle finestre, come nelle persiane verdi del pian di sopra, che contrastavano allegramente con le mura nerastre e con le rappezzature del tetto.

Il signor Aminta era smontato da cavallo, davanti ad un portone, o piuttosto ad un grand'arco, aperto a guisa di breccia nel muro. Sotto quell'arco profondo era un andito, mezzo occupato da cinque o sei scaglioni di pietra, che non andavano mica diritti, ma giravano un pochino di sbieco, fino ad un pianerottolo, fiancheggiato da due tozze colonne, unico sfoggio architettonico di quella costruzione, evidentemente fatta in più tempi. Tra le colonne era un uscio spalancato, che lasciava vedere le pareti affumicate di una larga anticamera.

– Ci siamo; – disse il signor Aminta al suo ospite, che era smontato da cavallo egli pure. – Chiuda gli occhi, per altro.

– Li terrò bene aperti, anzi, per vedere una casa ospitale; – rispose Gino, sorridendo.

E saliti quei cinque o sei scaglioni di pietra, entrò, seguendo il signor Aminta, nella vasta anticamera, dove non era che un grosso camino contro la parete, e davanti al camino una panca a semicerchio, col suo schienale alto, per ripararla dall'aria di fuori. Là, nelle sere d'inverno, e, dato il clima del luogo, anche in quelle di primavera e di autunno, dovevano raccogliersi intorno alla fiammata i re della montagna, coi loro famigli e con qualche viandante intirizzito. Nè sedie, nè altri arredi, si vedevano là dentro. Unico lusso, e certamente di altri tempi, una fascia di pietra che correva intorno alla cappa del camino, recando una leggenda scolpita a grosse lettere: «Dalla guerra alla pace» e uno scudo nel mezzo, alla spada rizzata in palo, con la punta abbassata.

– Avanzi di pretese nobilesche! – pensò Gino, vedendo lo scudo, ma non avendo tempo di leggere il motto.

На страницу:
2 из 7