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La testa della vipera
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La testa della vipera

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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La testa della vipera

I

Erano già le tre del mattino, e i giuocatori, sempre più accaniti intorno al tappeto verde, chiedevano nuovi mazzi di carte ai servitori sonnacchiosi del club.

Uno di questi aprì l'uscio di quel salotto dall'afa soffocante, s'inoltrò fino al tavolo dei giuocatori, e toccò discretamente sopra la spalla un uomo di circa quarant'anni, che, anche da seduto, appariva alto di statura, con un testone tanto fatto, irto di capelli rossigni tagliati corti che parevano punte di lesina, con ispalle grosse, rotonde, quasi gibbose.

Quest'uomo si voltò bruscamente e saettò chi l'aveva tocco di uno sguardo irritato cogli occhî grigi, che, in mezzo a quel faccione, apparivano piccolissimi, ma luccicavano d'un fuoco maligno.

– Che cosa c'è? domandò egli ruvidamente.

– Son venuti a cercare di lei da casa sua.

Quell'altro corrugò le grosse, fulve sopracciglia.

E senz'altro si voltò di nuovo al tappeto verde.

– Scusi, insistette il servo. Dice che è cosa di premura… Quella donna vuole assolutamente parlarle.

– Donna!.. È una donna?

– Sì, signore.

– Vecchia?

– Non più giovane.

– Piccola, tozza, rossa in viso?

– Appunto…

– E che cosa ha detto?

– Che aveva da parlarle, che premeva molto che la sentisse subito subito.

Quell'uomo sbuffò contrariato e dispettoso, ma non esitò più; puntò le manaccie villose sulla tavola e si alzò collo stento che avrebbe avuto se la tenace pece lo avesse appiccicato alla seggiola.

– Te ne vai, Lograve? gli domandò uno dei giuocatori.

– Un momento. Conservatemi il posto… vengo subito.

Raccolse in fretta le poche monete che aveva innanzi a sè, le cacciò in tasca, e col passo pesante seguì il servo in una camera attigua.

Là stava aspettando una donna quale era stata descritta dal giuocatore. C'era in essa qualche cosa di sommesso e di impertinente, di umile e di presuntuoso; l'aspetto d'una serva che fa da padrona. Vestiva un abitaccio di cotone da pochi soldi al metro e per difendersi dal freddo di quella notte invernale s'era avvolta in un mantello impellicciato da mille lire: con un fazzoletto di lana s'era coperto il capo, e ora, levatoselo in quel caldo ambiente, mostrava una capigliatura abbondante, nera come ala di corvo, in cui correvano già numerosi i fili d'argento. I pochi resti di una bellezza volgare, contadinesca, sparivano sotto la pinguedine che le faceva enormi le guancie e sotto una espulsione cutanea che glie le arrossava. Gli occhî, neri come i capelli, avevano un'espressione audace, curiosa, investigatrice, spiacente. La voce era forte, maschia; le labbra sottili della bocca troppo grande scoprivano ad ogni momento i denti bianchissimi e robusti.

Il collo grosso e corto aveva un giro di granate con un fermaglio rotondo d'oro, grosso come il dito pollice; e le mani tozze, corte, dalle unghie schiacciate, erano sovraccariche di anelli.

Appena vide entrare il signor Lograve, quella donna esclamò:

– Presto, presto, sor Lorenzo… Venga a casa… Sua moglie sta malissimo.

– Peggio di quando sono uscito?

– Assai peggio.

– È lei che ti manda?

– Oh! no… La non può nemmen più parlare. E poi essa non oserebbe…

– È di tuo capo che t'è venuta la bella idea, di venirmi a rintracciare fin qui?

– No, signore: è stato il medico.

– Il medico!.. C'è il medico in casa mia a quest'ora?

– Sicuro. Jeri sera ha trovato che le cose s'incamminavano troppo male e ha detto che se la malata peggiorava nella notte lo mandassimo a chiamare. La monaca mi venne a svegliare verso l'una, che le pareva la signora dovesse passare da un momento all'altro… Abbiamo mandato pel dottore, il quale è stato sollecito a venire, e si è stupito molto vedendo che il padrone di casa non c'era.

Lorenzo crollò le grosse spalle per significare che dello stupore del medico non glie ne importava niente.

– Fra il dottore e la suora me ne hanno dette tante che mi sono decisa a venire io stessa.

– Perchè voi?

– Perchè nè il servo nè il portinajo conoscendo il bell'umoretto di vossignoria hanno osato prendersi l'incarico.

Una fiamma salì alle guancie di Lorenzo che serrò i pugni e fece all'aria un gesto minaccioso.

– Sciocchi! imbecilli! poltroni! esclamò. Sono io il diavolo forse?.. Ebbene, ora che siete venuta, Marianna, riprenderete la vostra strada e tornerete a casa!

– E voi? domandò la donna guardandolo fissamente negli occhî.

– Io?.. io farò come mi piace.

– Ah! Lorenzo! disse la Marianna con una nuova famigliarità. Pensa bene! Tua moglie muore!

«Che cosa dirà la gente, se tu non sarai al suo capezzale, se ti si saprà in quel momento a giuocare in una biscazza?

Il passaggio al voi e poi al tu spiacque evidentemente al Lograve, il quale si guardò ratto d'intorno, pauroso che alcuno potesse aver udito: ma erano soli. L'uomo dissimulò il suo malcontento, e rispose facendo correre qua e là lo sguardo de' suoi occhietti inquieti:

– A me importa di quel che dirà la gente!.. Ma pure verrò.

– Subito?

– Sì.

– Con me?

– No, sarebbe villanìa partire senza una parola ai compagni. D'altronde ho qualche impegno… Va, va pure; fra dieci minuti sarò a casa.

– Sicuro?

– Sicurissimo.

– Non mancate.

– No.

– E presto…

– Ho già detto di sì, interruppe l'uomo con brusca impazienza.

Marianna si ricoprì il capo col fazzoletto, si serrò intorno la persona il mantello che aveva slacciato e lasciato cascare alquanto dalle spalle, e partì senz'altro saluto.

Lorenzo rientrò nella stanza del giuoco.

– T'abbiamo conservato il posto; gli dissero i giuocatori additandogli vuota la seggiola che aveva lasciata poc'anzi.

– Bene!.. grazie! rispose Lorenzo sedendosi. Un taglio e me ne vado… tanto da perdere ancora questi pochi che mi sono rimasti.

E ripose sul tappeto quella manciata di monete che aveva intascate levandosi di là. Seguitò a perdere; giuocò su parola; erano le sette del mattino quando il giuoco cessò e Lorenzo Lograve si alzò da quel tavolo con la perdita delle duemila lire che si era portate in tasca e di altre cinquemila da pagarsi. Camminò lentamente, quantunque l'aria frizzante di quel mattino invernale consigliasse ad affrettare il passo. Aprì l'uscio di casa colla chiave ed entrò. Tutto era bujo e silenzio. Senza accendere il lume attraversò la stanza d'ingresso, un'antisala, un salotto e chetamente venne ad affacciarsi all'uscio di una camera da letto. Le grandi cortine cascavano tutt'intorno al letto e lo chiudevano alla vista; appiedi era stato posto un tavolino con elegante tappeto e sopravi un crocifisso fra due candele accese.

Nessuno fiatava, nulla si muoveva; il luogo parve affatto deserto a Lorenzo che fece alcuni passi innanzi. Allora egli vide alzarsi dall'inginocchiatojo a destra una donna tutta vestita di nero che stava pregando. Era la monaca vegliatrice.

– Ebbene? domandò Lorenzo con voce bassa e quasi esitante.

La monaca lo guardò bene in faccia e gli rispose freddamente:

– È morta!

II

Quando Marianna era rientrata, il medico le aveva detto che, se il marito della moribonda tardava una mezz'ora, non l'avrebbe più trovata in vita; poi, non essendo più possibile alcun soccorso per quella infelice, erasene partito.

La morente pareva assopita: un respiro lieve, ma affrettato, le usciva dalle labbra assottigliate, aride, livide, semiaperte; le mani brancicavano con moto macchinale il lenzuolo; le palpebre richiuse apparivano così affondate nelle occhiaje che avreste detto non esservi più di sotto il bulbo; la fronte libera, dai capelli tirati indietro, pareva enorme, il viso invece stremenzito non maggiore di quello d'una bambina. La suora di carità, curva sull'agonizzante, ne bagnava le tempie e le labbra con un pannolino e recitava le preghiere dei moribondi.

– Sempre lo stesso? domandò Marianna tanto per dire qualche cosa,

– Peggio, rispose la monaca. E il marito verrà?

– Sì.

In quel punto la giacente aprì gli occhî. Quelle pupille, già velate dall'ombra della morte, guardarono vagamente qua e là senza segno di coscienza, ma incontrando la facciona rossa della Marianna, si animarono e presero un'espressione di ripugnanza, di rancore insieme e di paura.

– Via!.. via colei! balbettò la misera. Non mi ha ancora fatto male abbastanza?

Marianna si ritrasse vivamente indietro, facendosi nascondere dalle cortine alla vista della giacente, e intanto susurrò alla monaca:

– Il solito delirio… Non riconosce più le persone a cui essa era affezionata.

La monaca non disse nulla.

Lo sguardo della moribonda andò a porsi sopra una culla che stava presso la finestra. La coscienza e l'intelligenza tornarono del tutto in quell'essere vicino ad estinguersi.

– Mio figlio! diss'ella con voce alquanto più forte. Voglio vederlo.

– Il bambino non è qui, disse la monaca.

– Dov'è? dov'è? Me l'hanno rapito?

E il capo le si agitò sul guanciale, e le mani brancicarono più irrequiete sulle coltri.

– Si calmi, cara Luisa, soggiunse la suora; il bambino è di là che dorme colla nutrice.

– Ah! la balia! susurrò la moribonda; so che l'hanno dato alla balia… Me l'ha portato via la balia.

– No, no, stia tranquilla, è di là; creda alla mia parola.

– Voglio vederlo… voglio vederlo.

S'agitò maggiormente; la voce le si era fatta più forte, un lieve rossore le salì alle guancie e faceva uno strano contrasto col giallognolo della fronte.

– Abbia pazienza, disse la monaca, mettendole una pezzuola ghiacciata sulla fronte; il piccino dorme.

Ma la moribonda s'agitava viepiù.

La monaca fu commossa dall'accento di supplicazione disperata con cui quella poveretta pronunciò tali parole; si voltò indietro e susurrò alla Marianna nell'ombra:

– Contentiamola, pover'anima!.. Faccia portar qui il bambino.

Marianna stette un attimo quasi esitante, poi crollò lievemente le spalle e se ne andò senza dir motto.

– Mio figlio!.. mio figlio… continuò ad esclamare con voce gemicolante la morente.

– Verrà, verrà, le disse la monaca. Sono andati a prenderlo… Si quieti, a momenti sarà qui anche suo marito.

Finalmente l'uscio s'aprì, ed entrò una balia assonnata, con aria di cattivo umore, e fra le braccia, serrato nel portabimbi, un fantolino di pochi giorni che gemicolava ancor esso, quasi alla pari di sua madre nell'agonìa.

Gli occhî di quest'ultima s'illuminarono d'un lampo di vita. La misera fece uno sforzo per tirarsi su della persona, per sollevare le braccia e tenderle al bambino; ma non potè nè l'una cosa, nè l'altra; il capo le ripiombò sul cuscino, le braccia sulle coltri.

La monaca prese il bambino dalla nutrice, e venne a porlo sotto gli occhî della madre. Era un bimbo miseruzzo, piccino, piccino, cogli occhî rinchiusi, la pelle tutta grinze, la carnagione gialliccia; e non cessava quel gemicolìo, che rivelava un continuo malessere.

La moribonda balbettò con accento d'immenso desiderio:

– Baciarlo!

La suora di carità pose presso le labbra della morente il visino patito del bimbo.

– Oh, figlio mio! susurrò la madre infelice. Lasciarti… in mano di… O Dio pietoso!.. Lo raccomando… Preghi…

Un ultimo sguardo supplicante rivolse alla monaca; le labbra cessarono di baciare e di parlare; una lieve contrazione corse per tutto il corpo della poveretta e con un sospiro il capo si reclinò sulla spalla.

La monaca porse il bambino alla balia.

– Prendete, portatelo di là… Questo innocente non ha più madre!

Marianna fece vedere fra i battenti dell'uscio la sua faccia rubiconda.

– Finito? domandò.

– Sì! rispose la monaca, la quale con mano pietosa subito richiuse alla morta gli occhî e le labbra, ne adagiò il capo sui guanciali, congiunse le mani sopra le coltri e pose fra esse un crocifisso mormorando preghiere.

Marianna s'avanzò lentamente, quasi riguardosa verso la morta; la contemplò un istante con uno sguardo di espressione difficile a definirsi, ma non certo di dolore; e poi disse freddamente:

– Ha terminato di patire… Già, non ha mai goduto di florida salute… Non avrebbero dovuto maritarla… E neppure suo figlio non credo che possa vivere…

– Sarà quel che Dio vorrà, interruppe asciuttamente la monaca.

– Oh! ella ha ragione, cara suora! esclamò con accento di untuosa devozione Marianna. Dio sa meglio di noi quel che ha da fare. Dà e toglie la vita, e bisogna rassegnarsi a' suoi santi voleri.

Cambiò tono ad un tratto per dire con ostentata indignazione:

– Ma quel sor Lorenzo è proprio imperdonabile… Non essere neppur venuto a darle un ultimo addio.

La monaca non disse nulla: dispose appiè del letto il tavolino col crocifisso e le candele, accostò l'inginocchiatojo e si mise a pregare.

– Cara suora, ha ella bisogno di qualche cosa? domandò Marianna facendo meglio che poteva la voce dolce e insinuante.

– No, grazie, rispose la monaca senza pure voltare il capo. Starò qui a pregare finchè venga la mia compagna a surrogarmi.

– Benissimo… Le sue preghiere sono una carità fiorita per questa povera anima… Pregherei anch'io molto volentieri qui con lei… ma sono stanca… Ho vegliato parecchie notti… e per me le emozioni mi accasciano. Vado a gettarmi sul letto… Oh, non dormirò… pregherò anch'io… ma proprio non posso più star su.

La monaca, colla fronte serrata fra le mani, seguitava a pregare senza dar retta alle parole di Marianna.

Questa non aggiunse altro e scivolò fuori della camera senza rumore; dieci minuti dopo, essa dormiva sodo, come chi ha l'anima soddisfatta e tranquilla.

III

– Morta! ripetè Lorenzo fuggendo cogli occhietti grigi e maligni lo sguardo dritto, levato della suora di carità.

– Da due ore… La vuol vedere?..

E senza aspettare risposta, la monaca sollevò uno dei candelieri, tirò in là una delle cortine e fece cadere la luce gialla dalla candela sul volto della morta.

Una gran placidezza s'era diffusa su quel volto fattosi del colore del vecchio avorio; ne spirava quel non so che di solenne e di sacro, che dà ai lineamenti umani la morte.

A quella infelice la Provvidenza non aveva concesso l'inestimabile privilegio della donna che è la bellezza; irregolari i tratti, cinerea la carnagione, povera la capigliatura, troppo sporgente e a bozze la fronte, incavate le guancie, meno candidi i denti; un pregio solo: una grande aria di bontà a cui si aggiungeva la timidezza del debole.

– Luisa! esclamò Lorenzo facendo un passo verso il letto: ma il suono di quel nome pronunciato dalla sua voce parve stupirlo, infondergli non so qual paura. Anche dalla vista di quel placido volto di cadavere fuggirono i suoi occhî irrequieti. Egli chinò il capo e mormorò piano:

– Morta!.. Poveretta!

– Vuol sentire le ultime parole che ella disse?

Lorenzo, sempre guardando in terra, accennò di sì col capo.

– Si fece portare il bambino, e baciandolo mormorava: «lo raccomando, lo raccomando…» È certamente a lei che voleva raccomandarlo.

Lograve fece sgusciare verso la monaca una ratta guardatura maligna.

– Sono suo padre, disse con voce cupa non ho bisogno che mi venga raccomandato… E hanno lasciato lei sola qui? s'affrettò a soggiungere per cambiar discorso.

– Sì.

– Non istà bene.

– È il mio ufficio questo, e non ho bisogno di ajuto nè di compagnìa per compirlo.

E tornò all'inginocchiatojo a pregare. Lograve rimase un momento esitante, quasi perplesso.

– E… la governante? domandò poi abbassando ancora la voce.

– Si è ritirata anch'essa, rispose la monaca senza voltarsi.

Il vedovo andò al camino dove ardeva un buon fuoco, sedette e si diede a fissare le fiamme che danzavano sui tizzi. Regnava il più profondo silenzio. La monaca stava immobile sull'inginocchiatojo a pregare; il marito di quella morta immobile a contemplare il fuoco acceso. Egli non aveva l'ipocrisìa d'una lagrima. Non si poteva dire che sentisse rimorso; ma un grave fastidio l'occupava; il pensiero dell'irrevocabile, dell'irrimediabile, gli era come un peso al cervello. Questo, stanco dalla veglia e dalle emozioni del giuoco, cadeva di quando in quando in una specie di vaneggiamento in cui le idee si confondevano scambiandosi in imagini spropositate, come quelle dei sogni, e, pur rimanendo sveglio, perdeva la percezione esatta delle cose e del tempo.

A un punto uno dei tizzi, a metà consumato dalla fiamma, cadde e rotolò giù dal focolare: Lorenzo si riscosse, prese affrettatamente le molle, raggiustò la legna, e sbadatamente si mise a battere sui tizzi; ma in quel silenzio di morte il rumore prodotto gli parve enorme, scandaloso. Egli si drizzò in piedi, depose pianamente le molle, guardò di sfuggita verso il letto, e con passo guardingo uscì dalla camera.

Lungo il corridojo, a capo del quale era la sua camera, Lorenzo passò dinanzi ad un uscio e si fermò esitante: un forte russare venne ad avvertirlo che la Marianna ci dormiva profondamente. Fece un atto quasi di dispetto, e continuò la sua strada. Giunto nella sua camera, vi si rinchiuse, accese una lampada, poichè il giorno non era abbastanza chiaro, e passeggiò un poco su e giù, colle braccia incrociate, il capo chino, più curve del solito le spalle grosse. Poi sentì un gran freddo invaderlo con un malessere di tutta la persona.

Spense il lume, si buttò sul letto vestito come era, e si avvoltolò ben bene nella coperta imbottita. La stanchezza della veglia lo opprimeva, il calore a grado gli rianimava il sangue, gli parve di potersi addormentare anche lui, e se ne rallegrò tutto. Chiuse gli occhî, stette immobile e aspettò con intenso desiderio questo sonno benefico.

Ma no, ch'esso non venne. Tornavano invece le imagini strane; prima senza senso, senza nesso, spropositate, confuse; quindi a poco a poco più nette e precise; le imagini di tutto il suo passato, che si posero a sfilargli innanzi alla mente, insistenti alcune, le più spiacevoli ribelli alla sua volontà, che si sforzava a scacciare lontano.

Ed ecco qual era il suo passato.

IV

Figliuolo d'un uomo che doveva dirsi il fiore degli egoisti e di una donna dalla testa leggiera e dalla condotta compagna, egli era nato cogli amori d'un prodigo e le passioni d'un libertino. Suo padre lo trattava come un cane, ed egli odiò suo padre; conobbe presto le sregolatezze della madre, ed egli disprezzò sua madre. Dovette assistere a scene terribili, ignobili, fra genitori, che gli tolsero per essi ogni rispetto e riguardo. Il padre non aveva che un mezzo per tenerlo sommesso e disciplinato: il rigore, e ne abusava. Il giovinetto conobbe tutti i generi di punizione che un padre senza cuore possa infliggere a un figliuolo recalcitrante.

La madre un bel dì scappò di casa con non so quale avventuriere, e la rabbia, la vergogna del marito abbandonato si convertirono in altrettanta maggiore persecuzione verso il figliuolo. Questi pensò ancora egli più volte di sottrarsi colla fuga ad un'esistenza divenuta insopportabile; ma dove andare? e come vivere?

A quattordici anni credette poter procurarsi un mezzo di scampo. Un suo compagno di scuola, più vecchio di lui, gli parlò del giuoco: Lorenzo riuscì a rubare uno scudo dal taschino del panciotto di suo padre, a letto addormentato, e si fece condurre in una bisca. Guadagnò, e il suo guadagno subito consumò in luoghi sconci, per tornare a casa ad ora indebita, senza più un soldo e ubbriaco. Furibonda fu la collera del padre, e degni di essa gli effetti. Lorenzo, schiaffeggiato, cacciato a calci nello stambugio che gli serviva da camera, vi doveva rimanere prigione una settimana a pane ed acqua. Uscì di là più invelenito, e con nel sangue già violente le destatesi passioni del giuoco e della dissolutezza.

In quel tempo entrò in casa come governante una giovane donna, fresca, grassoccia, colla volgare bellezza d'una florida salute, colle grossolane attrattive d'una carnosa robustezza, ed in breve fu la padrona. Era la Marianna.

Lorenzo cominciò per odiarla; ma la donna, o avesse veramente compassione di quel maltrattato, o per accorta previdenza volesse prepararsi la continuazione del dominio in quella casa, anche dopo la morte dell'attuale padrone, si fece la protettrice del giovinetto. Dell'autorità che aveva saputo acquistare sul padre di Lorenzo, si giovò per mitigare i feroci umori verso il figlio; molte punizioni riuscì a diminuirgli o anche a risparmiargli affatto; molte colpe di lui seppe nascondere e nello stesso tempo valse a fornire il borsellino vuoto del giovane perchè potesse a suo modo divertirsi. Fece anche peggio con infame cedevolezza, per tenere a sè legati e padre e figliuolo; e insomma riuscì a dominare l'uno e l'altro e a spadroneggiare in quella casa in tutto e per tutto.

Quando il padre morì, le cose non cambiarono per Marianna; anzi furono meglio ancora. Sul giovane Lorenzo quella furba, corrotta donna, aveva saputo acquistare un influsso anche maggiore.

Violento di carattere, maligno di cuore, Lorenzo, imperioso, sofistico; grossolana la donna, avevano pure non di rado furiose contese; ma appetto a lei più tenace, più verbosa, più acre, che sapeva di lui tutto il brutto, ne conosceva a fondo l'anima ed era abilissima a rinfacciare, accusare, minacciare, egli finiva per cedere e col tempo s'era lasciato investire da una specie di suggezione, che pareva riconoscere nella donna una superiorità.

Inoltre la Marianna, toltasi in mano, fin da quando viveva il padre di Lorenzo non solo il governo della casa, ma tutta l'amministrazione del patrimonio, erasi fatta poco meno che indispensabile al giovane che amava trovarsi ogni cosa accomodata a dovere, e denari in pronto a ogni occasione senza aversi da prendere il menomo fastidio.

Nè era poco abile e poco zelante l'accorta femmina a procurare il proprio guadagno: tanto che, maneggiando essa e capitali e fondi e redditi, ogni anno riusciva a mettere in disparte, come cosa sua, un buon numero di migliaja di lire, e in capo a due lustri aveva investito in titoli del debito pubblico e in depositi bancarî più di cinquantamila lire. Ma mentre venivano così aumentandosi le sostanze della governante, scemavano rapidamente quelle del padrone, da lui sperperate al giuoco, nei bagordi, nel soddisfacimento delle sue passioni e dei suoi vizî. Era sempre la Marianna che provvedeva ai bisogni di lui, accattando denari di qua e di là, e specialmente da sè stessa.

Quando Lorenzo contava già trentacinque anni ed era quasi del tutto rovinato, la fortuna venne a porgergli occasione di rifarsi mercè un matrimonio.

A prender moglie egli non ci aveva mai pensato; e se vi avesse pensato, si sarebbe affrettato a fargliene smettere l'idea la Marianna, la quale a niun patto avrebbe tollerato l'ingresso in casa d'un'altra donna.

Ma ci fu una fanciulla così disgraziata da far nascere in Marianna medesima il disegno di darla in moglie al padrone. Era figliuola unica d'un usurajo ignobile e spilorcio, cui tutti disprezzavano e che tutti disprezzava, vivendo isolato nel sudiciume d'una stamberga. La misera Luisa era venuta su stentata, rinchiusa fra quelle mefitiche mura, senz'aria, senza sole, mal nutrita, mal riparata dal freddo dell'inverno, oppressa dall'afa nei calori della state. Appena se il padre le aveva fatto imparare a leggere e scrivere, mandandola da certe monache, le quali, oltre il rosario e un ricco repertorio di giaculatorie, nulla sapevano insegnare.

Della vita, la poveretta non conobbe mai nulla, del mondo non potè vedere che le quattro pareti della triste casa paterna, un umido cortiletto, e il convento e il tratto di strada che conduceva alla chiesa, e la chiesa dove il padre la traeva, estate e inverno, ad assistere alla prima messa.

In casa, naturalmente, a fare le più umili come le più faticose bisogne, non c'era altra persona che lei.

Marianna cominciò ad aver attinenza coll'usurajo, cercando accatti pel suo padrone.

Al vecchio gufo tornò gradevole la vivace grossolanità di quella paffuta e rubiconda comare; si stabilì a poco a poco fra quei due una certa famigliarità; la governante di Lorenzo fu la sola creatura umana che il padre di Luisa ammettesse in casa per altro che per affari.

Ed ecco che un bel giorno, un tiro secco di colpo rapì l'usurajo alla figliuola e agli accumulati e nascosti tesori, senza che egli, il quale rifuggiva sempre con orrore dal pensiero della morte, avesse, in alcun modo, provvisto alle cose sue.

La figliuola, unica erede, essendo già maggiore di età, entrò subito in possesso delle sostanze paterne, e, inesperta, ignorante di tutto com'era, trovossi più imbarazzata d'un pulcino nella stoppa. Ma c'era lì la Marianna, e la povera fanciulla ringraziò la Provvidenza che le avesse procurato un sì valevole ajuto a trarla d'impiccio.

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