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Lutezia
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Lutezia

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Dunque io dico, l'article de Paris varia secondo le strade e le insegne. Potrei parlarvi dei libri, che comperate a caro prezzo dal libraio, e che avete a stracciamercato sui muricciuoli, quantunque si tratti della medesima edizione, e spesso della medesima freschezza; ma il capitolo si è fatto lungo oltre misura. Ritenete questa verità apodittica, che dappertutto si pela, ma che soltanto a Parigi si conosce l'arte di plumer un poulet sans le faire crier. Al gran prezzo ed al piccolo; e nessuna borsa si salvi.

III

Poliglottismo commerciale. – Eccezioni alla regola. – Orgoglio legittimo. – La fratellanza dei popoli e la razza latina. – Non e ne 'ncaricà. – Retorica onesta. – La parabola del buon levatore. —Laboremus.

English spoken, Man spricht Deutsch, Men spreeckt hollands, Se habla español,

e chi più n'ha più ne metta; io ci rinunzio, avendo dimenticato il testo preciso della medesima frase in russo, in polacco e in ungherese, che ho avuto la fortuna e il piacere di leggere su certe vetrine di via Lafayette.

In questo poliglottismo commerciale di Parigi tutte le nazioni sono rappresentate, ove se ne eccettui la nostra. Non mi è occorso di vedere in nessun luogo il desiderato «si parla italiano», salvo in via Castiglione, entro l'insegna d'un fotografo…italiano. L'eccezione conferma la regola.

Lo fanno apposta? Non credo. Quando un francese sa scrivere «come statte?» o farvi sapere che l'italiano «attrapare» corrisponde al francese attraper (preziosa notizia che ho trovata sul Pays, in un articolo filologico di Granier de Cassagnac padre) si suol dire a Parigi che costui parla l'italiano «comme le Dante». È dunque da credere che il desiderio di parer versati nella nostra lingua, evidente in certuni, escluda la possibilità del dispregio. Aggiungerò una prova convincente. Ieri il mio parrucchiere mi domandava con aria di profondo interesse: «est-ce vrai, monsieur, que l'italien ressemble beaucoup au latin?» – «A quelque chose près;– gli risposi; —et c'est vraiment dommage que ce ne soit du latin tout pur.» —

Il fatto è questo, che i francesi ignorano la nostra lingua e non sentono il bisogno d'impararla. L'italiano, quando esce fuori di casa sua, s'ingegna come può; bene o male, ma più spesso con mediocre infamia, spiccica la lingua degli altri. Ogni altro popolo d'Europa, quando varca i suoi naturali confini, parla volontieri la propria e mostra di stimar poco coloro che, interrogati, non gli rispondono in quella. È un nobile orgoglio, secondo certuni; ma io lo definisco l'orgoglio dell'ignoranza. Quando sono in un paese che non è il mio, amo parlare la lingua di quel paese; quando sono in casa mia, m'ingegno di farne gli onori, parlando al forastiero la lingua sua, se ho la fortuna di masticarne un pochettino. Questo era, dopo tutto, anche il gusto di Byron, che scriveva mirabilmente nella lingua di Shakespeare, ma si sarebbe vergognato di parlarla sul continente, avendo l'aria di imporre ai forastieri l'idioma di Wellington e di Hudson Lowe. Al diavolo dunque l'orgoglio della lingua patria, del non volerne saper altra e del pretendere che tutti parlino la nostra. Superbia per superbia, teniamoci quella del sapere qualche volta la lingua degli altri, del potere dare, col Mazzini e col Ruffini, degli scrittori all'Inghilterra, col Fiorentino e con altri parecchi, alla Francia. Qualche volta abbiam fatto di più, dando ai nostri vicini degli uomini di Stato, come il Mazzarino, degli imperatori, come il Buonaparte, dei dittatori, come il Gambetta.

C'est nôtre orgueil à nous, anche quando di questi uomini si dicono corna. Bisogna leggere per esempio ciò che si scrive qui del Gambetta, trionfante a Romans. Le rusé gênois, l'opportuniste italien, sono i titoli più alla mano. E non sanno il piacere che ci fanno, quando scrivono e dicono di queste cose. A buon conto scoprono il loro mal talento e rendono a noi ciò che è nostro.

Ritorno al mio tema. I francesi, dirà taluno, non conoscono la nostra lingua perchè non hanno interesse a studiarla. Per una parte è vero, amando noi di parlare il francese, quando siamo in casa dei nostri vicini. Per l'altra non lo è più tanto, dovendosi ammettere che un po' d'obbligo dovrebbero sentirlo anche loro, e notando inoltre questa sollecitudine con cui tanti bravi bottegai si affannano a notificare urbi et orbi che essi hanno il dono delle lingue, meno la nostra. E perchè questa esclusione, di grazia? Non è lecito di conchiudere che ci amano poco?

Per me, e senza mestieri di tante licenze, conchiudo addirittura così. L'ho accennato in uno dei capitoli precedenti e lo ripeto in questo. Chiacchiere di fratellanza, di razze latine, d'interessi paralleli e via discorrendo, ne sentirete molte anche qui; ma non c'è da crederne un frullo. Sono i giornalisti che svecchiano queste anticaglie, e noi, qui, dobbiamo accordare ai giornalisti quella fede che ottengono qui. Consentitemi la ripetizione dell'avverbio; è proprio qui che si sente questo difetto d'amore per noi; esso traluce, trapela, traspira e trasuda per ogni verso, nella sua forma più naturale e più schietta. Non è odio, non è malumore, è freddezza.

Che cosa importa a voi della donna che non vi piace? Può passarvi a lato quanto vuole, ma non avrà da voi che un'occhiata distratta. Può esser bella come pare a lei e agli altri, ma a voi non farà nè caldo, nè freddo; non negherete la cosa, ma non penserete neanche ad ammetterla; farete come Mastro Raffae', consigliato dalla canzone a non incaricarsene punto.

Ho parlato di freddezza, intendiamoci; ho detto che l'odio e il malumore non c'entrano. Qui non odiano nessuno di fuori via, neanche i tedeschi. Quando leggete su pei giornali o nei libri, i dolorosi accenni alla guerra del 1870, non vi fidate di certe frasi; sono abbellimenti rettorici. I tedeschi, forse, odieranno questo popolo, che si è rialzato così presto, troppo presto, mostrando di possedere una vitalità straordinaria; ma questo popolo non odia loro. Potrà darsi che un nuovo padrone lo spinga a tentare la rivincita, soffiandogli in cuore uno sdegno che giovi alle proprie ambizioni; ma sarà uno sdegno fittizio, un semplice innesto, come quello del vaiuolo. Per il momento, il nuovo padrone non c'è', nè sembra vicino, checchè ne dicano i giornali monarchici e i bonapartisti; c'è la repubblica con l'esposizione universale e la pace. Man spricht Deutsch! Chi avrebbe potuto prevederlo sette anni fa?

Aspettando che altri preveda il giorno e l'ora del «si parla italiano», diciamo dunque che delle lingue ignorate a Parigi la più ignorata è la nostra. Per chi aspetta la fratellanza dei popoli, questo è un cattivo segno, sicuramente; ma restringendo la nostra prospettiva, e contentandoci di restar parenti in dodicesimo grado con tutti (che sarà sempre abbastanza e a taluni parrà anche d'avanzo) si può ammettere che il male non sia poi così grave. Non dimentichiamo che i francesi, se non istudiano ora la lingua nostra, l'hanno pure studiata in illis temporibus, e la loro letteratura se ne è tanto imbevuta da portarne i segni entro e fuori, nella sostanza e nella forma, nelle frasi e nella ossatura dei periodi. Gli scrittori francesi del Cinquecento riboccano d'italianismi, e i più famosi tra loro sono anche i meglio formati sul gusto italiano. Inoltre, l'arte francese non è suppergiù che una derivazione dell'arte nostra. Come corteggio alle nostre principesse fiorentine, abbiamo mandato a Parigi i nostri pittori, i nostri scultori, i nostri orafi, i nostri architetti, e via via gl'insegnatori di tutte le utili discipline. La seta, i velluti, le maioliche, industrie italiane trapiantate in Francia; la pittura e la scoltura anche oggi sono studiate a Roma; per l'architettura si è formata qui una vera scuola, italiana nel complesso delle forme, sopraccarica negli accessorii, a cui giovano i facili insulti del clima, che annerisce e confonde nelle linee generali quell'abuso di ornati, non imitato certamente da noi. Emancipati dall'Italia nell'industria e nell'arte, hanno un pochino dimenticato la balia, ecco tutto. Saliti su su, mentre noi cadevamo sempre più in basso, e non al tutto per colpa nostra, pensarono per lunga pezza che noi non fossimo più necessarii nel mondo. Ad onor loro, va notato che furono i primi ad accorgersi dell'errore e che in un buon quarto di luna ci hanno anche data una mano a risorgere. Se ricompensati ad usura, non importa cercare; il benefizio è di quelli che non si possono attenuare, rammentando ciò che costano. Nè vuolsi andare ad almanaccare come e perchè, ad ottenerci il benefizio, ci volesse un tiranno, dopo che i nostri vicini, costituiti in repubblica, avevano aiutato a ribadirci le catene. Non siamo noi che dobbiamo guardare in bocca al cavallo donato; alla fin fine, i torti della seconda repubblica francese li ha cancellati la terza.

Questa è rettorica onesta; ma intanto l'amicizia non c'è, e l'ignoranza delle cose nostre rimane all'ordine del giorno. È un bene? è un male? Vediamo il bene; io non credo inutile questa indifferenza per noi, da parte del cervello del mondo; riconosco che c'è del buono, del gustoso, in questo risveglio non osservato del nostro paese. Meno abbaderanno a noi, e meglio faremo i fatti nostri. Le donne di cui tutti parlano, a cui tutti tengono dietro, non sono quelle che vantaggiano di più la famiglia.

Vedete il buon levatore; è desto e lavora, mentre tutti gli altri dormono ancora della grossa. È quella l'ora più felice della casa, senza faccie torbide e coi sorrisi dell'aurora al balcone; ogni cosa si fa presto e bene, quando non ci sono fastidii, nè inciampi. Chiunque ama il mattino (e tutti i lavoratori lo amano), m'intenderà facilmente, e vedrà di primo acchito l'utilità di lasciar dormire chi vuole, e di lavorare inosservati al nostro risorgimento politico ed economico.

Godiamoci dunque la nostra mezza solitudine e approfittiamone per rimetterci all'opera. Ci guadagneremo di sicuro qualcosa; per esempio di non avere a concorrer più all'Esposizione mondiale come abbiam fatto quest'anno, pochi, dappoco e mal serviti per giunta.

Ci siamo, all'Esposizione, direte; il salmo doveva finire in gloria. No, lettori umanissimi; sarà per un'altra volta. Oggi s'è fatto per celia.

IV

All'Esposizione mondiale. – Il Trocadero. – Le branche dell'astaco. – Babilonia veduta di giorno. – L'insalata dei popoli. – Tentazioni e ritegni. – La Via delle nazioni. – Le sezioni industriali – Il caos.

Ho promesso, ed ogni promessa è debito; andiamo all'Esposizione.

Ve ne hanno parlato tutti ed io non potrò dirvi nulla di nuovo. Ma, Dio buono, che cosa c'è egli di nuovo sotto il sole? Neanche il Trocadero genuino ed autentico, che, se non m'inganno, è a Cadice ed è stato preso anche un pochettino dal re Carlo Alberto, in penitenza de' suoi peccati di gioventù.

Perchè abbiano dato il nome di Trocadero al palazzo delle feste, edificato sulla riva destra della Senna, davanti al Campo di Marte, che è sulla riva sinistra, non so e non mi son presa la briga di chiedere. Forse lo hanno chiamato così, perchè il nome suonava bene, come quell'altro di Alcazar, già entrato nelle grazie e nelle consuetudini di Parigi. Lasciamola lì e diciamo che fa un bel vedere, con la sua massa tondeggiante a varii piani e con le sue braccia allargate a semicerchio, di rincontro all'Esposizione. Lo spazio che corre tra i due fabbricati è immenso, circa cento cinquantamila metri quadrati. Il Trocadero ha un acquario nelle viscere, smisurata esposizione di pesci, che si vedono nella piena libertà delle loro occupazioni domestiche girando i meandri di una grotta; ha una cascata che gli esce dal grembo, una gran sala di concerti, di balli e di conferenze nel petto. Che cos'abbia nella testa non rammento più bene; so invece che ha nelle braccia una esposizione retrospettiva dell'arte europea, dall'età della pietra lavorata fino ai tempi moderni, e ci ho ammirato le incisioni fatte dai pastori di venti mil'anni fa sulle corna delle renne e sui denti di mammutte, gli elmi dei Galli, i coltelli dei Druidi, i bronzi e le terre cotte dei Romani, il giaco del Conte Verde, l'armatura di Cristoforo Colombo, l'elmo di Boabdil, ultimo re di Granata; insomma, un mondo e mezzo di curiose e preziose anticaglie.

Quella del Trocadero è un'architettura tutta bucherellata, che mi piace poco, veduta ne' suoi particolari; le lunghe braccia dell'edifizio son molto, ma molto, lontane dalla dignità di quel doppio colonnato in cui il Bernini ha rinchiusa la basilica di san Pietro, e arieggiano piuttosto le branche sottili di un astaco. Se il Trocadero fosse dipinto di rosso, vi parrebbe infatti di vedere un homard. Ma collocate tutta quella massa su d'un poggio, seminate qua e là, per l'immenso declivio, delle cascate, delle fontane, dei chioschi, dei castelli algerini, la cui grandezza è un nulla a petto di quella mole gigantesca, ed essa finirà col piacervi, come è piaciuta a me. Aggiungo che il Trocadero, essendo nuovo, è bianco; cosa rara a Parigi, dove ogni superficie di marmo, o d'intonaco, annerisce nello spazio d'un inverno; donde la necessità d'imbiancare di tanto in tanto le case, ma non già col pennello, sibbene col rastiatoio.

La qual cosa non è punto piacevole all'orecchio; experto crede Ruperto. Appunto ora, mentre scrivo, cinque o sei muratori, sospesi a certe funi spenzolanti dal tetto, rastiano la facciata d'una casa vicina, e cantano in coro la canzone alla moda: —Madame Langlumé, j' viens demander vot' fille. Non so quale dei due suoni sia più… laceratore. E la mia prosa ne risente, come vi sarà facile di riconoscere.

Dunque, dicevamo… Ma badate, qui si salta di palo in frasca, senza tanti complimenti; la vita, come il discorso, è tutta lardellata di parentesi. Da principio ci si confonde un pochino; questi indugi, questi perditempi su d'ogni marciapiede, ad ogni canto di strada, vi fanno bestemmiare perfino Giulio Cesare, che ha fatto di Lutezia una città importante, e Giuliano che aveva la debolezza di starci volentieri; ma poi ci fate la piega, vi accomodate all'indugio, che vi trattiene così poco, alla, noia incontrata, che ve ne fa cansare un'altra, aspettata pur troppo. In questa benedetta città potete dare un appuntamento e dimenticarlo, senza pericolo di passare per uno screanzato. C'est la règle; mentre l'andarci, composto di ricordarsene e di venirne a capo, in questo viavai di gente, in questa rete tessuta d'ostacoli inopinati e d'incontri fortuiti, c'est l'exception. Riuscite a mantener la parola data? Siete una exception. Non riuscite? Siete en règle.

Esco, se Dio vuole, da questa parentesi e ritorno al Trocadero. Vi ho detto in una delle mie lettere precedenti che sul boulevard, al crocicchio dell'Opera, con tutta quella illuminazione elettrica, par di vedere Babilonia di notte. Orbene, sul ponte di Jena, guardando un po' al Trocadero, un po' al palazzo dell'Esposizione, avete Babilonia di giorno; Babilonia per le grandi linee in distanza, Babilonia per tutti quei ciuffi di verde, che, disseminati a varie altezze, vi dànno un'idea degli orti pensili, Babilonia finalmente per la gran confusione di gente che va e che viene, parlando, fischiando, cincischiando, latrando, cinguettando tutte le lingue della terra.

Disegni del palazzo dell'Esposizione non cercherò di farvene; in primo luogo, perchè tutti i giornali illustrati li dànno, secondariamente perchè non credo nella efficacia delle descrizioni. Bevuta una tazza di cioccolata al caffè spagnuolo, o di cicoria al caffè algerino, m'inoltro sul ponte di Jena, allargato del doppio con possenti travature laterali, e ammiro il gran palazzo che non vi descriverò; noto che è quasi tutto di ferro e di cristallo, che quei grandi padiglioni del mezzo e degli angoli, con le loro ampie lunette invetriate, arieggiano gli archi a tutto sesto della facciata di San Marco; dò una guardata distratta ad una ventina di nazioni, allegoricamente rappresentate in colossali statue di creta; non mi commovo per una tozza Repubblica francese, di marmo bianco, seduta su d'una cattedra ateniese in capo alla gradinata che è davanti all'ingresso, e di là mi volgo indietro, come il naufrago dantesco, a guardare la sponda opposta. Quello è davvero uno spettacolo meraviglioso. Chioschi, fontane, praterie, castelli africani, padiglioni di zinco, baracche, depositi di marmi francesi, anche lavorati a statue, per far vedere a tutti che l'unico marmo statuario possibile è quel di Carrara; giù giù, sui lati, le tettoie dell'esposizione agricola, le stufe per le piante esotiche, e i fortieri delle ostriche, detti alla francese parchi d'ostricoltura; la testa dell'Indipendenza americana, principio d'una statua arcicolossale in bronzo, che i francesi regaleranno agli Stati Uniti nell'anno… vattelapesca; poi il gran maglio della fonderia del Creuzot; poi un altro acquario per l'ittiologia marina, e finalmente una fabbrica di sidro di Normandia col suo banco di vendita al minuto, che io, feroce bevitore di sidro al cospetto di Dio, rammenterò sempre con gratitudine; eccovi la decima parte di quello che si vede, e la ventesima di quello che non si vede, accatastato, ammonticchiato, pigiato, in un disordine che non manca d'eleganza, sul vasto pendio del Trocadero e sulla riva sinistra della Senna, in giro all'Esposizione e sempre fuori del suo magno recinto.

Vorrei dirvi qualche cosa delle aiuole di fiori, vere esposizioni orticole, di cui non si potrebbero immaginare le più splendide; ma qui c'è proprio da confondersi, tra i pelargonii dalle foglie tricolori, le araucarie imbricate, le creste di gallo sesquipedali, le jucche, le latanie, i bambù giganteschi, lo vigne nane sopraccariche di grappoli. Cesso da inutil opra, come direbbero i classici; rinunzio a questa fatica da cani, come si dice in volgare.

Entriamo, se vi piace, nel gran palazzo di cristallo, detto del Campo di Marte, perchè ne occupa tutto lo spazio, cioè a dire una superficie di quattrocento ventimila metri quadrati. Questo palazzo ha due facciate, l'anteriore e la posteriore, e per conseguenza due grandi vestiboli, ognuno dei quali è largo ventiquattro metri e lungo trecento cinquanta, cioè quanto la facciata medesima, «sotto le cui tre cupole – ei corre e si dilata – fiume di cento popoli – che fanno… un'insalata».

L'insalata dei popoli è un'immagine che il Preti e l'Achillini m'invidieranno dalla tomba. Ma per descrivere questa roba ci vuole a dirittura lo stile del Seicento. In mezzo al vestibolo, davanti all'ingresso, c'è un orologio monumentale, che fa fronte da quattro lati ed ha quattro statue, rappresentanti i quattro elementi degli antichi. Il pendolo, indipendente dall'orologio, ma pendente dalla cupola, ha una lunghezza di ventiquattro metri, e consta d'un complesso di sfere, collegate in modo da formare una specie di bilanciere. Scusate la rima; qui si diventa poeti senza volerlo.

Amate meglio diventar milionarii? Tentate un colpo su quella vetrina ottagona che si vede alla sinistra dell'orologio, sormontata da un baldacchino rosso. Ci sono dentro i diamanti della corona; il Reggente, che pesa cento trentasei carati e vale cinque milioni, non un soldo di meno; i sette diamanti del cardinal Mazarino; un diadema in diamanti e perle, che valgono cinquecento mila lire l'una; poi turchesi e brillanti; collane di perle; diamanti e rubini; stelle in diamanti, ricevute da Napoleone III in regalo da parecchi sovrani; la Giarrettiera; l'Elefante di Siam; un'impugnatura di spada, eseguita per Carlo X; un orologio tempestato di diamanti, destinato in principio al Dey di Algeri, che fu poi tempestato (il Dey, non l'orologio) di palle da trentasei e di altri oggetti sferici dello stesso valore; finalmente un diadema in diamanti che può all'occorrenza trasformarsi in collana. Vi avverto, per altro, che ad una cert'ora di sera la preziosa vetrina discende sotto il pavimento, in un misterioso nascondiglio, il cui orifizio si ricopre con spesse lastre di ferro fuso. Uomo avvisato, mezzo salvato.

Non ci perdiamo nel vestibolo d'onore, detto del ponte di Jena; usciamo all'aperto, nella via interna, detta la via delle Nazioni. Essa corre rasente alla sezione centrale, dove è l'esposizione di belle arti di tutti i popoli d'Europa, ed ha sull'altro fianco l'esposizione industriale di tutti i popoli dell'Europa, suddetta, e di parecchi dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Australia. Ognuna delle nazioni che concorrono all'esposizione ha la sua facciata su questa via. L'Inghilterra ci ha riprodotto lo stile della sua architettura ai tempi della regina Anna, o giù di lì; gli Stati Uniti un quid medium tra il dock e lo scalo di ferrovia; la Svezia e la Norvegia due casette di legno in stile romando del XII secolo; l'Italia un portico di palazzo milanese del Cinquecento; il Giappone una casa di campagna; la Cina una porta del palazzo imperiale di Pechino; la Spagna un frammento dell'Alambra; la Russia una casa di Mosca, quella stessa in cui è nato Pietro il Grande; la Svizzera una casa del cantone d'Argovia, nello stile suo del XVII secolo; il Belgio un palazzo magnifico, nello stile del Risorgimento, e in marmi e pietre delle sue cave; la Grecia una casa Policroma del tempo di Pericle; l'Austria un palazzo ad archi e colonne, che è suo come il Trentino, o come l'Istria, con una facciata a graffiti, elegantissima, di cui si potrebbe vedere il tipo originale a Pistoia, o in qualche altra città della Toscana.

Ho detto che a tutte questo facciate, e ad altre che ommetto per brevità, corrispondono le rispettive sezioni industriali. Ho detto altresì che nel mezzo dello sterminato edifizio è la corsia delle belle arti di tutti paesi, ed aggiungo che essa s'interrompe nel centro, per dar luogo al padiglione speciale della città di Parigi. Aggiungo ancora che dall'altro lato di questa corsìa, e parallela alla via delle Nazioni, corre la via di Francia, con tutta l'esposizione delle industrie francesi, che costituisce la metà di tutto il palazzo. Ve ne siete formati un'idea? No. Lo capisco; ma non è colpa mia.

Lo ripeto, qui c'è da confondersi. Vorrei veder voi, lettori umanissimi, dopo una prima gita, tutta consacrata a formarvi un'idea del complesso, ed anche dopo una seconda, tutta spesa a vedere di corsa statue e gruppi di zinco, stivalini, manipoli di grano, ombrelli, aratri, velluti, ostriche, porcellane, lenti telescopiche, pelliccie, rastrelli, molini a vento, borse, bauli, pietre dure, scatole, mobili, bacheche, paraventi, conserve alimentari, arnesi scolastici, sottane, guanti, concimi, seghe, farine, carboni, diamanti… e quasi quasi sarò per aggiungere, col Burchiello,

… Zaffiri ed ova sodeNominativi fritti e mappamondi.

Io, dopo aver fatto il viaggio e perduta la bussola, sono andato a rifugio nella corsìa delle belle arti, e in quell'altra, che non è molto lungi, delle industrie italiane.

Giunto là, ho sentito il bisogno, come ora, di ricogliere il fiato.

V

Industrie italiane. – Lombardi e Genovesi. – I canditi del Giappone. – Libri e pianoforti. – Scoltura piccina. – Un primato in pericolo. —Exemplaria graeca. – Un pronostico al condizionale.

C'è del buono, mi affretto a dirlo. Non sono pessimista per progetto ed amo render giustizia a tanti bravi industriali, che modestamente, ma indefessamente, lavorano a rialzare il credito delle manifatture italiane. Gran lode va data, per esempio, a tutti quei valenti setaiuoli comaschi e milanesi che hanno esposto i loro prodotti, mirabili per bontà di tessuto e per vivezza di colore, sotto il titolo comune di Associazione della tessitura serica italiana; allo Schlöpfer di Salerno pe' suoi tessuti ad uso di vestiario; al Piccaluga di Gavi e al Bancalari di Chiavari pei loro filati di seta, veramente notevoli; ai Gérard e ai Casa, genovesi, per la bellezza e la solidità delle loro tele; al Trapolin di Venezia e al Levera di Torino per la sfoggiata magnificenza dei loro damaschi. Firenze e Roma si sono mantenute al primo posto, per l'artistica lavorazione delle pietre dure. Nei mobili siamo giunti ad una bella altezza, e tutti, italiani e forastieri, ammirano lo stipo intarsiato del Bertolotti di Savona; il quale stipo, appunto perchè è la cosa artisticamente meglio riuscita di questo genere, che sia nella esposizione italiana, non ha avuto dal giuri, che una medaglia di terz'ordine.

Ma passiamo oltre, che i giurì son tutti compagni. Ricordo a titolo d'onore le belle mostre ceramiche e vetrarie, del Ginori di Firenze, della Società Faentina, della Società di Murano e del Salviati di Venezia; non senza notare che, rispetto a queste industrie gentili, siamo rimasti un po' stazionarii di rimpetto ai francesi. Sèvres e il Baccarat informino! Non così per l'industria dell'orafo e del gioielliere, che corre gloriosa e trionfante, con Alessandro Castellani ed altri parecchi. Le filigrane son belle, ma poche, come i versi del Torti e come in genere gli espositori genovesi, che io cito qui per ragione di cittadinanza.

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