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I rossi e i neri, vol. 1
I rossi e i neri, vol. 1

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I rossi e i neri, vol. 1

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Il dottor Collini (lo diciamo ora, poichè ci viene in taglio) era un ambizioso di tre cotte, e della modesta sostanza che aveva ereditata dai suoi, si era giovato accortamente per frequentare i gran signori. Esercitava la medicina, nella quale era versatissimo e già famoso per qualche cura fortunata, sebbene ancor giovine: ma si diceva che quel giovine medico s'aiutasse più con la sottigliezza dei raggiri che con la bontà delle ricette. E taluno, anzi, più addentro in certi misteri della vita cittadina, lo accusava d'imprestar denaro ai figli di famiglia, ai troppo vivaci rampolli delle nobili casate con le quali era entrato in relazione, per farselo poi restituire raddoppiato dai frutti, o triplicato, o quadruplicato, col savio metodo delle rinnovazioni. Ahi, la calunnia! Ma egli in questi negozi non entrò mai per suo conto: parlava, faceva parlare da altri, e non domandava nemmeno di essere ringraziato della sua cortese intromissione. Al più, volendo malignare ad ogni costo, si sarebbe potuto dire che egli sapesse collocar bene il suo denaro, essendo uno dei socii occulti del banco Cardi Salati e C., del quale a suo tempo racconteremo vita e miracoli. Brutta cosa, non è vero? Ma questa non si sapeva, e quanto a certe chiacchiere di gente malevola, il Collini le poteva disprezzare. Dotto e virtuoso per molti, non aveva agli occhi loro altro difetto che l'ambizione, anzi la forma più tenue dell'ambizione, la vanità. E se ne rideva un pochino, senza perdergli stima. Si sa bene, chi non ha il suo difettuccio? La vanità è il piede di creta di tanti colossi! Ma bisognava anche dire che la vanità del Collini, non che un piede, fosse una gamba a dirittura.

Per avere un titolo di conte, il giovinotto avrebbe sacrificato Dio sa che cosa, e, stiamo per dire, battuto moneta falsa. Però invidiava al marchese di Montalto le sue pergamene, come gl'invidiava la bellezza (un po' sciocca, la chiamava egli tuttavia) e i sospiri delle belle signore. In teatro gli davan noia gli applausi prodigati ad un tenore, come di cosa che gli levassero a lui: sulla pubblica piazza avrebbe augurato il capitombolo ad un saltatore di corda, ad un mattaccino, per tutte le prodezze che sapevano fare, e che tiravano troppo l'attenzione della folla.

Lorenzo Salvani non sapeva niente di ciò. Nel Collini non vedeva altro che un semplice vanerello, e, da buon filosofo com'era, gli perdonava facilmente quel suo peccatuccio. Era d'altra parte contento che nell'ora della necessità, in una di quelle occasioni che provano gli amici, il Collini si fosse ricordato d'un vecchio compagno di scuola, da gran tempo a mala pena salutato per via.

Così risoluto di rendergli servizio, si vestì in fretta, mise nel taccuino alcuni biglietti di visita, e uscì di casa in compagnia del Collini, suo Pilade improvvisato.

L'Assereto fu presto scovato tra piazza dei Banchi e il vicolo de'

Cartai, ragguagliato d'ogni cosa e persuaso a dare una mano. Due ore più tardi, egli e il Salvani erano al caffè della Concordia, dove il

Collini stava aspettando l'esito della loro visita al marchese di Montalto.

– Ebbene? – chiese egli ansioso.

– Tutto fatto; – rispose Lorenzo.

– Come, fatto?

– Eccovi tutto per filo e per segno. Abbiamo trovato il signor marchese, assai garbato nei modi, quantunque ne trapelasse un poco della sua alterigia. Saputo del nostro incarico, ci domandò se sapevamo anche le condizioni dell'alterco tra lui e voi. Io, come potete immaginare, risposi di no; che infatti siamo ancora adesso a non saperne nulla. Parve meravigliato, e mormorò tra i denti: «Tanto meglio; vorrei essermi ingannato». Gli chiesi allora che cosa significassero quelle sue parole di colore oscuro. «Niente, niente che vi possa dispiacere, nel vostro delicatissimo ufficio» si affrettò egli ad aggiungere colla maggior compitezza. «Voi bene intenderete, signori, che per andarmi a incontrare sul terreno col signor Collini io non sono certamente costretto a pensare di lui come ne pensano i suoi amici. La sua riserbatezza, del resto, gli fa molto onore, e voi vedete che amo rendergli giustizia. I miei padrini sono il marchese Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, capitano nel settimo reggimento di fanteria». Infatti, quei due signori erano in casa sua, e ce li presentò. Sono due compitissimi cavalieri, e c'intendemmo subito. Noi abbiamo lasciato loro, com'era giusto, secondo gli usi nostri, la scelta dell'arma, ed essi hanno scelta la spada. —

Un sottile osservatore avrebbe potuto notare un lieve mutamento sul volto del Collini, una cosa da niente, ma di quelle che bastano a far sentenziare sommariamente di un uomo. Lorenzo tuttavia non si addiede di nulla, e la faccia del Collini si ricompose prontamente. Che paura, del resto? Una piccola scossa, a tutta prima, sentendo nominar l'arma che si dovrà maneggiare. Ma le armi son tutte pari, davanti alla fortuna che le guida.

– Domattina, – proseguiva Lorenzo, – alle ore cinque dobbiamo trovarci in Albaro, presso la chiesuola diroccata di San Nazaro. È un ottimo luogo. Le armi le porterò io, che sono di Toledo, col __Christi__ inciso sul forte della lama. Siete contento?

– Contentissimo: – rispose il Collini; – e vi ringrazio di cuore.

– Anch'io sono contento, – disse il Salvani. – Non già del duello. Ma poichè bisognava farlo, preferisco la spada. È un'arma meno chiassosa, e di antica nobiltà italiana.

– Così penso ancor io; – riprese il Collini. – Io dunque faccio assegnamento su voi altri.

– State sicuro. Ma, a proposito, e il ritrovo? Verremo da voi alle quattro, se vi conviene…

– No, no; – interruppe il Collini. – Non venite da me; ci ho le mie buone ragioni; temo che s'indovini dove vado. Per una visita medica, che fingerò di aver da fare, non è proprio necessario che si vedano due gentiluomini al mio uscio di casa. Farò dunque in modo da non dar sospetti in famiglia, e alle quattro e mezzo sarò io stesso a' piedi della collina, sotto la villa del Paradiso.

– Vi aspetteremo dunque lassù. E adesso dove andrete?

– Dal Cavalli, a rifare la mano.

– Benissimo; a domattina. —

I due amici, salutato il Collini, andarono pei fatti loro. Ma come furono giunti sulla piazza delle Fontane Amorose, l'Assereto si fermò sui due piedi, guardando il compagno.

– Ebbene? – disse Lorenzo. – Che c'è?

– Sai una cosa? – disse di rimando quell'altro. – Questo Collini non mi pare un uomo solido.

– Baie! e perchè?

– Perchè più volte ho cercato di guardarlo nel mezzo degli occhi, e non ne sono mai venuto a capo.

– Sai che è una sua abitudine non guardar mai fissamente. E voi altri lo tartassavate sempre per ciò, dandogli del gesuita a tutto pasto.

– Sì, quello che vuoi; ma la sua faccia mi persuade meno che mai.

Credo che sia pentito d'essersi messo in questo impiccio.

– E in questo noi non ci abbiamo da entrare; – rispose il Salvani. – È venuto a chiederci un servizio; glielo abbiam fatto, e penso, mettendo la modestia da banda, che non avrebbe potuto trovare altri due che lo servissero meglio. Sul terreno farà il debito suo. Li conosco bene, questi uomini: non hanno il coraggio impetuoso, ma il sentimento della loro dignità li sostiene. E poi, questo non è il suo primo duello.

– Credi? Ebbene, si vedrà domattina. Addio; sarò da te questa sera. —

Così dicendo, l'Assereto se ne andò a casa sua, per la salita di Santa Caterina, crollando il capo come l'Apostolo del dito; benedettissimo uomo, che voleva vedere e toccare.

Lorenzo Salvani discese dai Ferri della Posta verso Luccoli, e rientrando in casa ordinò al fido Michele che spiccasse le spade dal trofeo, per dar loro una ripulita. Poi si mise da capo a tavolino, ripigliando a scrivere nel suo zibaldone, con la voluttà dell'uomo povero, che ha tutti i suoi feudi nel regno della fantasia.

IV

Qui si mostra con la prova in mano come gli angeli non siano poi tutti in paradiso.

Qualche lettore curioso vorrà sapere dell'altro intorno a quella testolina di fanciulla, che insieme abbiam vista apparire dal vano di un uscio, e di cui, con pochi e rapidi tocchi abbiamo anche abbozzato una specie di ritratto. E noi vogliamo contentarlo, questo lettore curioso, anche a costo di non far correre abbastanza spedito il racconto.

Maria era bella, come si è detto, ma non di quella bellezza tutta seste, misure e proporzioni, che piace nelle statue, ed è muta e fredda com'esse; bensì di quella viva e calda e prepotente bellezza, che è tutta espansione, accoppiando la soave euritmia delle forme al raggio divino dell'anima, per modo che tutto parli in lei e commuova, perchè tutto palpita e vive. Il carattere di quella bellezza faceva senso, la grazia angelica de' suoi contorni soggiogava gli occhi e gli spiriti. I capelli neri, che traevano all'azzurro intenso come la classica ala del corvo, i neri occhi, le lunghe ciglia, il naso profilato, la bocca vermiglia, il volto ovale, l'incarnatino delle guance, i delicati contorni del collo, erano tanti ingredienti coi quali uno scrittore esercitato avrebbe potuto comporvi una bellissima testa, e che noi, non sapendo far meglio, vi mettiamo qui alla rinfusa, perchè vogliate formarvela da voi, coll'aiuto della vostra immaginazione.

Maria aveva di poco passati i suoi diciott'anni; ma il suo cuore, castissimo sacrario di nobili affetti, ne aveva quindici appena. Però gli occhi della fanciulla splendevano di una luce modesta, non scintillavano ancora. Per lei tornava a mente il primo verso d'un celebrato poema del Moore, nella amorosa versione del Maffei: «Sul mattin della vita era il creato». La scienza del bene e del male non aveva ancora profferto il suo fatale insegnamento a quella gentil creatura.

Tra Lorenzo e Maria correva una certa somiglianza. Ambedue avevano neri i capelli e spaziosa la fronte: ma il volto di Maria era bianco incarnato, quello di Lorenzo era bianco pallido; se il giovane fosse vissuto un tratto alla vampa del sole, quel volto sarebbe diventato bruno, poichè c'era sangue marinaro nelle vene dei Salvani. Inoltre, gli occhi di Maria erano d'un nero turchiniccio, dai riflessi d'indaco; quei di Lorenzo d'un lionato carico, e li faceva parere neri la profondità delle occhiaie, sotto la guardia delle sopracciglia prominenti.

Più forte tra i due era la somiglianza del carattere, frutto evidente di una parità di educazione, che può farsi in noi come una seconda natura. Senonchè, le esterne sensazioni conducevano l'animo di Maria alla dolce gaiezza, o alla malinconia rassegnata, quello di Lorenzo alla pazza allegria, o alla tristezza profonda. Non c'era gradazione di tinte, nello spirito di Lorenzo Salvani. Ambedue, del resto, sentivano altamente di sè, anime dignitose e preparate ad ogni maniera di sacrifizi. L'impresa dell'armellino: «__malo mori quam foedari__» (anzi che macchiarmi morire) pareva fatto bella posta per quelle due nobilissime creature.

Era nobile di natali Maria? Lorenzo, qualche volta, celiando, le dava un certo nome! Ma i natali di quella che egli chiamava celiando «la bella marchesina» erano rimasti un segreto fra il colonnello Salvani e sua moglie. Lorenzo teneva in un ripostiglio del suo cassettone, gelosamente nascosto e chiuso, uno scrignetto d'ebano, nel quale il gran segreto aveva a trovarsi di certo: ma i parenti l'avevano dato in custodia a Lorenzo, col patto che fosse il dono di nozze dei Salvani alla cara fanciulla.

– Un giorno qualcheduno ti amerà, – aveva detto la signora Luisa, – di un amore diverso da quello di mio marito e dal mio. Quell'uomo, se tu lo ricambierai d'affetto sarà degno veramente di te; ed allora meriterà di sapere da che sangue sei nata. Svelartelo ora sarebbe impossibile; e dirti soltanto il nome di tuo padre, che fu onesto, buono e generoso, potrebb'essere un grave pericolo, per te e per altri. Egli ti confidò come un sacro deposito a Rigo Salvani, e noi dobbiamo rispettare la sua volontà.

– E mia madre? – aveva chiesto Maria.

– Tua madre è felice. Quel giorno ch'essa chiederà di te, meriterà davvero di esser tale. Per ora ti basti. Ne sei forse accorata?

– Oh, no! sarei un'ingrata. Finalmente, non siete voi la mia madre vera, da cui tutto mi viene? Se mio padre, colui che mi amava è morto, l'anima sua si è tutta trasfusa in voi altri, per farmi la più fortunata tra le orfane. —

Queste parole esprimevano allora i veri sentimenti di Maria; ma non è da credere che l'idea di quel segreto non gravasse talvolta sull'anima sua con tutte le ansie di un dubbio doloroso. La povera fanciulla si sentiva troppo sola al mondo, specie da quando la signora Luisa e il colonnello Salvani erano andati a riposare, l'uno accanto all'altro, nelle zolle del camposanto. Ella per giunta aveva inteso bene lo stato critico di Lorenzo, poichè questi l'ebbe condotta a dimorare in Genova, col veterano Michele. Per nessun'altra cosa al mondo il giovane Salvani si sarebbe piegato a vendere la casa paterna, se non fosse stato l'obbligo di proseguire l'opera pietosa dei parenti verso di lei. Questo aveva inteso Maria, e gliene serbava nel cuore una gratitudine infinita. I nuvoli della fronte di Lorenzo essa li conosceva a puntino, come il marinaio le seccagne della sua rada natale. Erano ben neri, quei nuvoli, e a grado a grado più frequenti e durevoli. Che dolore per lei, che assisteva alla rovina quotidiana del suo fratello d'adozione, senza che fosse in potere suo di recarvi un rimedio efficace!

E non sapeva ancor tutto; ignorava lo spediente delle ottanta lire al mese, che Lorenzo andava a guadagnarsi a tarda sera nel fondo di una bottega. Sentiva nondimeno le angustie di lui; e non potendo molto, aveva presto pensato di aiutare col poco. Si era indettata per ciò col vecchio Michele. Di giorno, le ore che Lorenzo passava fuori, o nella sua camera a scrivere, la magnanima giovinetta le spendeva a ricamare; e parecchie della notte egualmente. Da quelle sue dita maestre uscivano lavori delicatissimi, che il bravo Michele, per mezzo di certe conoscenze, trovava modo di spacciare presso qualche merciaio; e a volte, quando si trattasse d'opere più vistose e più fini, non arrossiva di metterle in lotteria.

Per altro, intendiamoci; se non arrossiva di spacciar la roba a quel modo, coll'obbligo di andare attorno e di sollecitare la gente, si ricattava di quell'audacia mettendo le poste salate. E se taluno gli diceva: «costa troppo», egli dava di piglio alla sua roba, e se ne andava difilato, senza più accettare nemmeno quel prezzo ch'egli stesso aveva chiesto da prima. Spregiare a quel modo un lavoro della sua Minerva celata, era un peccato da non portare speranza di assoluzione.

Quelle ore che Lorenzo passava in casa, erano ore di allegrezza e di festa. Il povero giovane studiava di molto, e non si prendeva uno svago a cui non partecipasse Maria. Ed era bello vederla, con la sua lunga veste di seta nera, o di mussolina bianca (che d'altri colori non usava adornarsi mai), col suo cappellino di paglia di Firenze all'estate, e di velluto nero all'inverno, prigione troppo stretta al volume della nerissima capigliatura, andar leggera leggera al braccio del suo caro fratello.

Michele non aveva mai voluto andar fuori con essi. E sì che il povero veterano delle __Tapera di Don Venanzio__ e di porta San Pancrazio ne aveva una voglia spasimata! Ma anche Michele ci aveva il suo segreto, che non aveva confidato nemmeno alla sua bella padroncina. Egli non voleva che dalla sua compagnia nessuno argomentasse che quegli occhi neri, i quali guardavano a mala pena la strada, e quelle dita affusolate, chiuse in un guanto perlato, fossero quegli occhi e quelle dita che si affaticavano su certi ricami, ch'egli andava attorno a spacciare.

Quella bella e virtuosa famigliola viveva in un modesto quartierino che abbiamo fatto conoscere fin da principio ai lettori, composto sul davanti di due camere da letto, separato da una terza che faceva uffizio di camera da lavoro e di sala da pranzo. La camera di Lorenzo metteva nella sala d'entrata; quella di Maria in un corridoio, per dove si andava alla cucina. Dalla cucina, poi, si saliva ad una cameretta, ricavata nella impalcatura del tetto, nella quale dormiva Michele; e da questa cameretta si usciva sul terrazzo, ch'era tutto ornato di pianticelle, da giardino e da orto, cura particolare del vecchio servitore ne' suoi ozii mattutini.

Dall'altra parte della sala d'ingresso non c'era altro che l'uscio del salottino, malinconica stanza, che è sempre la stessa ed egualmente arredata in tutte le case di modesta fortuna, col suo canapè barocco, fasciato di lana a rabeschi, il tavolincino ovale poggiato su d'una gamba sola davanti al canapè; il piccolo tappeto da piedi tra l'uno e l'altro; quattro sedie a bracciuoli e una poltroncina; quattro battaglie litografate del '48, con la cornice dorata da tanto al palmo; le cortine di mussolina bianca traforata a fogliami, rialzate da due borchie d'ottone sui lati; finalmente un albo con venticinque ritratti, che il visitatore si crede in obbligo di sfogliare, osservando i mezzo svaniti gruppi di famiglia, la sposina in piedi, che posa una mano sulla spalla del marito comodamente seduto, i due amici in maniche di camicia, che fanno le viste di trincare alla salute della macchina fotografica, la balia con l'erede presuntivo sulle braccia, e via discorrendo.

Nel salottino di Lorenzo Salvani il terribile albo non c'era, non essendo ancora venuto l'uso della fotografia a buon mercato; e l'altra costumanza dell'albo bianco, trappola di poeti e di pittori, era in uno de' suoi intervalli di felicissimo riposo.

Maria, del resto (che in simili faccende gli uomini non contano mai), anche se la costumanza dell'albo fosse stata viva e fiorente, non l'avrebbe seguita di certo. La fanciulla aveva altro da pensare, e il gusto di certi trastulli donneschi non lo sentiva affatto. Non amava, per esempio, i fiori sul davanzale, nè i canerini in gabbia; amava tutte le creature del buon Dio, ma senza far preferenze.

Nel giorno da cui prende cominciamento la nostra narrazione, Maria aveva fatte le maraviglie della visita ricevuta da Lorenzo. Il giovine non chiudeva la sua casa a nessuno, ma nessuno ci andava, perchè egli non concedeva diritti di dimestichezza a nessuno. Sapevano tutti ch'egli aveva una graziosa sorella; lo vedevano uscire con essa, ma non c'era verso di potersi accompagnare. Eglino del resto andavano sempre a diporto per istrane vie, a guisa di chi va per le sue faccende. Le strade Nuove e l'Acquasola, ritrovo di gente sollazzevole, non vedevano quella coppia fraterna se non molto di rado, e sempre di passata.

Abbiam dunque detto che la visita del signore sconosciuto aveva fatto maravigliar la fanciulla. Lorenzo, dopo quella visita, era uscito in fretta, senza dirle nulla; ed era questa una grossa novità. Era tornato due ore dopo, e si era seduto al suo tavolino, senza andare neanco a salutarla. Che voleva dir ciò?

Non istette molto a saperlo. Un'ora dopo il ritorno del fratello (il lettore ha già inteso perchè usiamo chiamarli alla breve fratello e sorella), Maria si spiccò dal suo lavoro, per andare sul terrazzo a respirare un po' d'aria; chè la giornata, come abbiamo già detto, era bellissima, e tiepida, a malgrado della stagione.

Nel salire la scala, udì Michele, che era nella sua cameretta sotto il tetto e canterellava una sua prediletta romanza spagnuola:

Mis ojos te vieronRosaura querida;Mortal fuè la heridaDe mi corazon.

Michele cantava sempre spagnuolo, con quel suo accento americano che fa rabbrividire ogni buon cittadino della __Castilla vieja__. Ma egli non si curava più che tanto della purezza dell'accento, e tirava innanzi. Dopo la canzoncina di Rosaura, veniva quell'altra:

Pescadorcita miaDesciende à la ribera,Y escucha placenteraMi cantico de amor;Sentado en su barquilla,Te canta su cuidado,Cual nunca enamoradoTu tierno pescador.

Il veterano di Montevideo ne aveva un centinaio, di queste canzoni, e quando lavorava attorno a qualche cosa, le sciorinava tutte, una dopo l'altra, con una costanza mirabile.

– Bravo, Michele! – gli disse la giovinetta, entrando nella camera.

– Oh, signorina! Domando mille perdoni. È una delle mie vecchie cantilene, che non mi lasciano mai, come certi dolori aromatici che ho buscati laggiù. —

Michele intendeva di parlare di dolori reumatici; ma la corretta pronunzia di certi vocaboli non era il suo forte.

– Povero Michele! – soggiunse la giovinetta, non badando ai dolori aromatici, ai quali era avvezza, come a tanti altri suoi __lapsus linguae__. – Cantate, cantate; è una cosa che rallegra lo spirito. Ma che cosa fate voi ora. Dio mio? Quelle spade!.. —

– Oh nulla, signorina. È il signor Lorenzo che mi ha comandato di dar loro una ripulitura. Sono belle armi, perdiana! Veda come si piegano! Le ho vedute adoperare dal signor colonnello, e le so dir io che fu un famoso scontro. Ho veduto allora una botta di terza, data così a tempo, che non l'ho scordata mai più, e mi corre l'acquolina in bocca al solo pensarvi. —

Così dicendo, il belligero servitore aveva smesso di pulire il ferro, e andava giostrando in aria come un vecchio spadaccino che prova i suoi colpi di riserbo.

A Maria tutti quei discorsi e quella mimica non dicevano nulla di ciò che voleva sapere.

– Ma voi non mi dite il perchè di questa novità! – esclamò ella. – Mio Dio! che cos'è egli avvenuto? Forse Lorenzo… —

E la povera fanciulla impallidì, e fu costretta ad appoggiarsi alla parete, tanta era l'improvvisa commozione.

– Oh, la non si spaventi, signorina! – gridò Michele, deponendo la spada e facendosi tutto sollecito accanto a lei. – Da quanto ho potuto capire, egli è solamente padrino. E poi, fosse anco lui, il signor Lorenzo sa pure tenerla in mano, una lama. Quello è un uomo che, non fo per dire, darebbe dei punti a suo padre. —

La fanciulla non istette ad aspettar la fine del discorso di Michele. Ridiscese la scala, corse alla camera di Lorenzo, e, trovato l'uscio socchiuso, entrò deliberatamente da lui.

Lorenzo stava scrivendo; ma al fruscio della veste, alzò il capo e si volse a guardare.

– Orbene, Maria? – disse egli, come per chiederle che cosa volesse.

La fanciulla era bianca in viso come un cencio lavato, e appoggiava la mano alla spalliera del letticciuolo di Lorenzo, quasi fosse per cader tramortita.

Allora il giovine fu pronto ad alzarsi e correrle incontro.

– Che cosa avete, mia buona Maria? Che cos'è egli avvenuto? —

La fanciulla non rispose alla dimanda di Lorenzo; e piantandogli addosso due occhi scrutatori, gli chiese a sua volta:

– Voi andate a battervi? —

A quelle parole, Lorenzo capì la cagione dello smarrimento di Maria, e si sovvenne dell'incarico dato a Michele, che aveva potuto far nascere in lei il sospetto. Però, assunta l'aria più grave, postosi una mano sul cuore e stendendo l'altra verso il ritratto di suo padre, rispose:

– Vi giuro, Maria, che non vado a battermi io. Sono padrino, insieme coll'Assereto, di un certo dottor Collini che avete veduto venir qua stamane, e al quale, come ad un antico compagno di scuola, non ho potuto dire di no. Eccovi la pura verità; mi credete voi?

– Oh, vi credo, Lorenzo, vi credo. Voi non mentite mai. – E il volto della fanciulla si rasserenò; le lagrime che stavano per isgorgarle dagli occhi alla pressione dell'improvviso sgomento, furono in quella vece spremute dalla gioia.

Avete veduto mai la campagna sorridere amorosamente ad un bel raggio di sole, dopo la tempesta? Gli smorti colori si ravvivano, le foglie abbattute si risollevano, e le gocce d'acqua che le avevano flagellate pur dianzi, riposano tranquillamente nelle verdi cavità, scintillando come altrettanti smeraldi.

Quanto affetto per Lorenzo! direte voi; e giustamente, nell'osservare il fatto in sè, non già nel cercarne una causa riposta in altr'ordine di pensieri. Maria amava Lorenzo di quell'unico amore che ella sentisse, e che non poteva definire la mercè di accorti raffronti, essendo l'unico che ella avesse mai conosciuto.

Lorenzo poi era un giovine eletto; amava Maria come una sorella, e per essa avrebbe corso ogni risico più grave. Ma v'erano di certe cose alle quali egli non avrebbe pure ardito pensare, temendo di commettere un sacrilegio. A dirvela in breve, Maria era per lui un angelo, cioè un essere di natura diversa dalla nostra, diafano, etereo, al quale non si potesse accostarsi se non dopo aver lasciato in disparte il pigro involucro della materia.

E Lorenzo non aveva il torto. Se egli è vero che gli angeli siano essi di natura superiore alla nostra, se è vero che questi esseri siano stati creati da messer Domineddio come suoi messaggeri e testimoni della sua bontà infinita, intermediarli tra il cielo azzurro e la creatura terrestre, Maria aveva tutti i requisiti per essere contata nel numero. In fin de' conti ella poteva passare per un angelo, il quale fosse toccato in sorte alla terra.

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