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Raggio di Dio: Romanzo
Raggio di Dio: Romanzo

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Raggio di Dio: Romanzo

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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“Quasi per aggiungere lo scherno all’offesa, portava l’Escobar in presente un barile di vino e una mezzina di porco salato. Se ne cavassero la sete, un centinaio di bocche, quante ne lasciava alle due navi sdruscite la sollevazione del Porras! Quanto ad aiuto di navigli, il gran commendatore (lo avevano infatti promosso alla maggior dignità di Alcántara, e si era spogliato della commenda di Lares) non poteva far altro che promesse, e solo per dimostrare il suo buon animo mandava quella piccola caravella, l’unico legno che si trovasse ad aver sotto mano. Bisognava contentarsi delle promesse, e far buon viso a chi le portava. Gran mercè che Diego d’Escobar si fosse incaricato di portar anche una lettera del Mendez, dove quel buon servitore faceva relazione di tutto il suo viaggio: relazione attenuata, s’intende, poichè doveva passare sotto gli occhi dei nemici; ma il signor Almirante sapeva leggere tra le righe.

“Questi avrebbe voluto rispondere, non pure al Mendez, ma ancora al governatore. Ma venne il mattino, e la caravelletta era scomparsa. Diego d’Escobar non aveva avuto altro incarico che di spiare e di riferire all’Ovando se l’odiato Genovese fosse ancor vivo. Bartolomeo Fiesco, dal canto suo, potè immaginare che quell’esploratore fosse venuto anche un pochino per lui, per vedere se egli, con quel suo tronco di legno incavato, fosse riuscito ad afferrar la Giamaica, e quali notizie avesse portate al signor Almirante. Se questo era il disegno di Nicola Ovando, poco doveva profittargli la sua accortezza. Bartolomeo Fiesco, che già all’apparire della piccola caravella si era posto sull’avviso, e delle persone che lo accompagnavano aveva prudentemente nascoste quelle che gli premeva di non lasciar vedere ai curiosi, trovò modo di dire all’Escobar, nel cospetto del signor Almirante, come questi fosse già informato delle buone intenzioni di don Nicola Ovando. – Gliel ho pur detto io, non dubitate, che il signor governatore non ha per ora a San Domingo i legni necessarii per mandare a levarci di qui; e se anche non giungevate voi, egli era già ben persuaso della bontà e della cortesia, comunque per ora impotenti, del gran commendatore d’Alcántara che Dio guardi, a cui vi prego di rammentarmi come suo buon servitore. – Era una bugía necessaria; e con certa gente, del resto, non si nasconde mai abbastanza quel che si pensa di loro. Il Fiesco, dopo tutto, non si pentì di quella bugía, nè d’altre parecchie, che per difesa sua e degli amici gli fosse tornato di dire. Se poi son colpe, ne domanderà l’assoluzione al suo confessore.„

– Fossero tutte lì! – scappò detto a frate Alessandro.

– Ah, tu non vuoi starmi ai patti, frate scudiero! – esclamò il capitano Fiesco. – Polidamante, negagli il vino.

– Per carità! – riprese il frate scudiero. – Stavo appunto per accennargli di mescere; e vi chiedo assoluzione a mia volta. Sapete pure che in certi brutti momenti avevamo promesso di confessarci l’un l’altro. Ma proseguite, capitano, ve ne prego. —

Il capitano Fiesco bevette un sorso, e ripigliò la lettura.

“Ritornando ora al signor Almirante, dirò com’egli, confidando oramai d’essere prima o poi sovvenuto di navigli, e cedendo all’impulso del suo cuore sempre inchinevole a pietà, mandasse due uomini a terra, dei suoi più fedeli, per tornare all’obbedienza i ribelli, avvisandoli dell’arrivo della piccola caravella, e mandando loro a testimonianza del fatto, come della bontà sua, una parte dei presenti che gli aveva portati l’Escobar. Già si disponevano alcuni ad accettare il perdono; ma li trattennero i Porras, più infelloniti che mai. E così, dopo essere stati un pezzo a consiglio, rispondevano tutti ad una, non volersi fidare del perdono, nè del salvacondotto che mandava loro il signor Almirante. Volentieri se n’andrebbero quieti dall’isola, s’egli promettesse di dar loro uno dei due navigli che aspettava, o mezzo naviglio, se uno solo ne fosse arrivato; e frattanto, poichè avevano perdute tutte le cose loro, volesse egli spartire con essi tutte quelle che aveva. E rispondendo i due ambasciatori non esser patti ragionevoli i loro, replicarono arroganti che quanto non si concedesse loro per amore, saprebbero bene pigliarsi per forza.

“Altro aggiungevano i Porras, riscaldandosi via via. Bene conoscevano l’Almirante per uomo vendicativo e crudele. Per sè stessi non temevano, sapendosi forti di amicizie e protezioni alla Corte; bensì per tanti loro compagni dei quali egli avrebbe preso vendetta, sotto colore e nome di castigo. Per tali ragioni non si era fidato di lui Francesco Roldano; e bene gli era riuscito, essendo stato tanto favorito da far mandar l’Almirante carico di ferri in Castiglia. Nè essi avevano minor cagione o speranza di fare altrettanto. Della piccola caravella, poi, non era da creder niente; ad altri la dèsse ad intendere. Quella non era stata una caravella vera, ma un fantasma di nave, opera di negromanzia, essendo noto come valesse l’Almirante in quell’arte diabolica. Perchè, se era opera d’uomini, non era rimasta, scambio di apparire a vespro e di sparir nella notte? Perchè con nessuno della sua marinaresca si era potuto parlare? Se fosse stata vera, bene si sarebbe affrettato l’Almirante a imbarcarvisi, col fratello e col figlio. Con le quali e con altre parole indirizzate allo stesso proposito, ottennero i Porras che la gente si confermasse nella ribellione, deliberando ancora di muovere verso i navigli, per far bottino, e prender l’Almirante prigioniero; se pure già non pensavano di far peggio.

“E mandavano i fatti compagni alle parole, accostandosi alla spiaggia di Maima. Non era più tempo d’indugi. Scese l’Adelantado con cinquanta armati, risoluto di sanare quei cervelli matti con buone ragioni, se potevano bastare; con le cattive, se fosse stato mestieri. Giunto ad una collina, e fermatosi ad un tratto di balestra dai sollevati, Bartolomeo Colombo fece chiedere il capo loro a parlamento. Non risposero quelli alla proposta degli ambasciatori, e pensando di aver da fare con gente stremata di forze, brandendo le spade nude, e le lance che avevano, formati in un drappello, e gridando ammazza, ammazza, assalivano la squadra dell’Adelantado; avendo prima giurato i sei più valenti di non dipartirsi l’uno dall’altro, ma di volgersi tutti contro Bartolomeo Colombo, perchè, morto lui, non facevano stima degli altri. Il che non piacque a Dio che loro venisse fatto, essendo stati così ben ricevuti, che cinque o sei ne caddero per terra, tra i quali erano i più di quelli che avevano giurato di colpire l’Adelantado. E questi diè dentro così forte, uccidendo ed atterrando, che l’istesso Francesco Porras non fu più in tempo a fuggire; laonde, lui fatto prigione, voltarono le spalle quanti non eran caduti.

“Volentieri avrebbe Bartolomeo Colombo proseguito l’inseguimento e lo sterminio di quei malvagi. Ascoltò nondimeno il consiglio di tale che aveva veduti sopra un’eminenza i naturali in gran numero, e forse disposti a saltare sui combattenti, sotto colore di aiutare i sollevati, ma col proposito di opprimere i fedeli dell’Almirante. E di questo il consigliere non si loderà troppo, pensando che forse egli vide un po’ grosso, quel giorno; mentre forse era meglio sperdere in un colpo la mala semenza, poichè nessuno valeva forse meglio del loro capo prigioniero ed incolume, nè del suo fallito imitatore, lo speziale mastro Bernardo da Valenza; il quale, a detta del signor Almirante, avrebbe meritato d’esser fatto a pezzi non una volta ma cento.

“Bene o male che fosse, l’inseguimento cessò, e ritornammo ai navigli, menando prigione Francesco Porras con altri de’ suoi. Della nostra gente due soli i feriti; l’istesso Bartolomeo Colombo in una mano, assai leggermente, e un maestro di sala dell’Almirante, percosso di lancia in un fianco. Pareva una cosa di nulla; pure, in capo a pochi giorni, il disgraziato morì. Dei sollevati, per contro, moriva in battaglia Giovanni Sanchez di Cadice, quello che sulle acque del Betlem si era lasciato sfuggire il cacico Quibian, per avergli allentata in mal punto la fune; e taccio d’altri minori. Ferito in molte parti del corpo, e rovinato giù da una balza, guariva invece Pietro di Ledesma, il forte nuotatore che tuffatosi in acqua dalla nave di Colombo, aveva superata la barra del Betlem, giungendo alla piccola colonia dell’Adelantado, e riportandone per l’istessa via le tristi notizie al signor Almirante.

“E merita costui un particolare ricordo, per la stravaganza del caso. Per due dì, dal 19 maggio, che fu il giorno della battaglia, rimase in quella fossa, senza che alcuno sapesse di lui, o gli desse aiuto, tranne gl’Indiani; i quali con maraviglia, non sapendo come tagliassero le spade nostre, gli aprivano con istecchi le ferite; una delle quali nella testa, per cui si vedeva il cervello, un’altra in una spalla, che si era quasi spiccata; un’altra ancora ad una gamba, spaccata dalla coscia alla caviglia; un’altra finalmente (e questa non si sapeva come fosse avvenuta) alla pianta del piede, dal calcagno alle dita. Coi quali danni nello scafo, quando gl’Indiani gli davan più noia, diceva: lasciatemi stare, che s’io mi levo su, vi farò… E lo diceva con tal voce di tuono, che quelli spaventati la davano a gambe.

“Inteso di quel fatto sui navigli, volle pietà che fosse curato e portato in una capanna, per ripararlo dal freddo della notte, e dalle migliaia d’insetti che lo molestavano di giorno, minacciando di finirlo essi soli. Quivi, invece di usar trementina a ciò necessaria, gli medicavano le piaghe con olio bollente. Le quali furono tante, da far strabiliare il cerusico. Infatti, ogni giorno dei primi otto che lo medicò, gli trovava sempre qualche nuova ferita.

“La lezione domenicale del 19 maggio era stata così solenne, che la mattina del lunedì i superstiti fuggiti mandarono a chiedere misericordia. Si pentivano dei lor falli; volevano tornare alla obbedienza. E l’Almirante concesse un perdono generale, a patto che il Porras, capo ed istigatore, rimanesse in prigione, per non esser causa d’alcun nuovo tumulto, e che i pentiti non venissero sulle navi a leticare coi rimasti fedeli, o a seminarvi zizzanie. Questi, per miglior consiglio, sotto la scorta di un fidato ufficiale, mandò per l’isola al traffico, prendendo vettovaglie e dando cianfrusaglie in ricambio. Ed erano i baratti di questa forma; per uno o due utias, che son come conigli, si dava un ferretto di stringa; per una focaccia di pan di cassava, due o tre avemmarie verdi o gialle; per maggior quantità di cose, un campanello di ottone; ai capi delle tribù, che stavano ai patti, ora un piccolo specchio, ora una berretta rossa, ora un paio di forbici. Piccole cose, e di piccola utilità; ma sapevano contentarsene quei popoli agresti. Certo, in cuor loro pregavano Giocovagama che ci rimandasse in Azatlan, donde eravamo venuti. Amavano il Giocomina degli uomini bianchi; ed egli ne meritava l’amore. Ma quante anime nere, tra quegli uomini bianchi! Per un vero figlio del cielo, quanti Goeiz scaturiti d’inferno!„

Capitolo IV.

L’epistolario di Cicerone

– Chi dorme si svegli; – gridò il capitano Fiesco, deponendo i suoi fogli, poichè aveva finito il capitolo.

– Siamo qui con gli occhi aperti e le orecchie tese; – disse frate Alessandro.

– Continuate, signor conte, se le dame permettono che si abbia una volontà in loro presenza; – aggiunse il cerimonioso don Garcìa.

– Le dame veglieranno fino a mezzanotte, se occorre; – disse a lui di rimando madonna Bianchinetta, avendo un cenno di assenso dalla contessa Juana.

– Avete tutti i voti, capitano; – conchiuse Giovanni Passano.

– Non tutti; – riprese il Fiesco. – Vedo che Ovando e Bovadilla sbadigliano. Del resto, per continuare a leggere, bisognerebbe che n’avessi materia. E sono rimasto qui, non avendo per l’altro che un guazzabuglio di appunti. Debbo ancor raccontare mezzo mondo di cose: come e quando ci giunse la nave comperata dal Mendez, e un’altra mandata per vergogna dal gran commendatore di Alcántara; come si partì finalmente il 28 giugno dalla spiaggia di Maima, un anno e quattro giorni dopo averci dato in secco per nostra salute; come si giunse il 13 agosto nel porto di San Domingo, dove il nostro grande e sant’uomo ricevette senza perdere la pazienza le mendicate giustificazioni e le false proteste d’amicizia dell’Ovando; mentre a costui doveva scusarsi Bartolomeo Fiesco, per quanta poca voglia ne avesse, dell’essersi allontanato da San Domingo, senza prender commiato da quel suo svisceratissimo amico; intanto che un bel mozzo tinto di carbone la faccia e le mani, un frate francescano più soldato che frate, e un certo don Garcìa travestito da marinaio e più nero del mozzo, si tenevano prudentemente sotto coperta. Come Dio volle, uscimmo da quella trappola il 12 settembre, dopo essere stati un mese coll’anima in soprassalto, per passare cinquantasei giorni sempre sospesi tra morte e vita, da San Domingo nel nuovo mondo a San Lucar di Barrameda nel vecchio. Che mare, vi ricordate? Cristoforo Colombo non l’ebbe mai peggio in sua vita. Ed anche si può dire che l’Atlantico serbasse i suoi furori solamente per lui, non lasciandogli, salvo nell’approdo a Guanahani, un giorno intiero di pace. Agli altri navigatori sempre mare tranquillo, e vento in fil di ruota! È giusto, dopo tutto. Quello è il grand’uomo, epico e tragico ad un tempo; debbono dunque esser sublimi di angosce mortali tutti gli accidenti della sua vita. Gli altri sono i curiosi che vanno sull’orma, i mediocri che seguono il solco tracciato da lui. Cabral, d’Ojeda, Vespucci, Cabotto, ed altri, quanti siete o sarete, che la fortuna manderà innanzi a pedate, affrettatevi a dimenticare quello che il gran Genovese ha operato per benefizio di tutti, non avendone altro che amarezze dagli uomini e tradimenti dalla vostra cieca signora. Ma basti di ciò, se pure non ho detto già troppo; – conchiuse il capitano Fiesco, prudentemente ammainando la vela. – Volevo dirvi che da San Domingo a San Lucar ce ne avrò ancora per quattro o cinque capitoli; dopo di che prenderò a raccontare la nostra particolare odissea, dalla Giamaica ad Haiti, e da questa a quella ritornando, con tutto quello che c’è stato di mezzo. Sarà l’episodio nel poema eroico del nostro immortale cittadino; ma che episodio, siatemene voi testimoni! e ditemi ancora se per me non debba esser piuttosto il poema. Lo scriverò, mettendoci tutto il tempo che sarà necessario, e lo lascerò per ricordo ai Fieschi delle generazioni future.

– Lo darete alle stampe, speriamo; – disse il Passano.

– Questo poi no. Ai Fieschi, ho detto, e non ai fischi; – ribattè prontamente l’autore. – Dimmi tu ora, Giovanni dell’anima mia, se con questa allegrezza della Gioiosa Guardia, dove ho portato con me il premio maggiore che uomo potesse sperare dei patiti travagli, e con l’onesto desiderio di lasciarne memoria ai dolci nepoti, io possa risolvermi di lasciare questo mio nido di pace per le chiamate del colle di Carignano.

– Che c’è? – disse Juana, turbata a quel cenno improvviso.

– Leggi; – rispose il Fiesco, levando dal giustacuore la lettera che poche ore prima gli aveva consegnata Giovanni Passano.

Poi, rivolgendosi al suo luogotenente, soggiunse:

– Caro mio, non ti maravigliare. Per mia moglie e per mia madre non posso avere segreti. —

Fior d’oro, intanto, aperto il foglio sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, a mezza voce leggeva. E noi leggiamo con lei la lettera dell’eccelso ed illustre Gian Aloise Fiesco:

A messer Bartholomeo Feisco nostro amato parente nec non viro excellentissimo

“Havemo ricevute a suo tempo le doe lettere che Voi ne mandasti per lo cavallante Nicholin di Baceza et per lo ballestero Anthonio de Rì. Le quali ne hanno immensamente allegrato per quello che diti de la vostra bellissima sposa et de la nostra nobile cugina Bianchineta che Dio vardi. Ma similmente non intenderne che Voi vi adormentati in ocio de Gioyosa Guardia, come novo Hercule in Lydia, salva sempre la gratia de la celeste Fior d’auro; non parendone digno di cavallier come Voi et experimentato in tanti famosi incontri de terra e mar, di restar lontano et alieno da quelle imprese dove se guadagna gloria et roba per lustro d’el nome et potencia de la casata. Ergo è nostra mente che Voi vegniate quam primum poteritis a trovarci in Violato; che se noi facessimo come ne avressimo bon desiderio una seconda volta il viaggio, li maligni inimici del Gatto direbbono forsi che noi tememo per lo nostro capitanato de Levante; il che non sarìa savio da parte nostra. Etiam molte cose haverei da dirvi et tute di grande importancia per Voi et per noi che dite di amare, nel che volemo ben credervi. Onde Vi preghiamo non fate dimora. Il nostro Giovan di Passano el ve dirà a bocca quanto sia nostra voglia di vedervi accanto a noi per quel molto o poco che vorrete restare. E Iddio vi tegna sempre in la soa santa custodia.

Genue. Die V Martii A. D. 1506.

“Vostro parente et bon servidore“Gioan Aloyse.„

Così la lettera dell’eccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior d’oro, com’ebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.

– Andrai? – diss’ella. – Gian Aloise ti prega.

– Andare è presto detto; – rispose Bartolomeo Fiesco. – Io non ci ho cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma sì; – rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva balenare dagli occhi di Fior d’oro; – io sono famelico di oscurità, che è principio di pace, e quell’altro laggiù vuol tirarmi in luce di meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche nostra madre, che è vissuta tanti anni senza di me, ha bisogno di rifarsi della lunga solitudine. Di voi non parlo, Juana, che mi dareste un ceffone più forte di quelli con cui accarezzate le guance alle finte povere della vallata. Qui si sta bene, ripeto, e meglio non si starebbe in nessun altro luogo. Desideri la vita operosa, con tutte le sue ansie, con tutte le sue illusioni e le sue delusioni, chi non l’ha ancora vissuta. È giusto che ognuno s’istruisca, e paghi i maestri del suo. Quanto a me, ho imparato abbastanza; onde dirò col poeta, di cui non ricordo più il nome:

Il porto è qui: speme e fortuna addio;Già m’ingannaste, or fate ad altri il gioco. —

Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso, perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e tracannò il vino d’un fiato.

Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di confortare con nuove ragioni a bocca l’invito che recava per iscritto. Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui. La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela confermava il giudizio di Fior d’oro.

– Non vi piace la mia risoluzione? – diss’egli.

– Non dico questo, nè lo penso; – rispose la contessa. – Ma riconosco che ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci torna meglio.

– Oh, per questo, vedrai che lo potrò; – ribattè egli animandosi. – Non sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo piuttosto ch’egli tratta da re. Quando un re scrive “vi vedrò volentieri„, il cortigiano accorre senz’altro. Io non sono un cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare. Infine, che cos’è che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo; difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il mio scoglio, e ci fo il mestiere dell’ostrica. Quando mai si è preteso che l’ostrica lasciasse di far l’ostrica, per fare il pesce spada? —

Gli pareva d’aver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso e rizzarono gli orecchi, brontolando verso l’uscio:

– Che c’è? – disse il Fiesco. – Hanno sentito qualche cosa d’insolito?

– Rumore nel cortile; – rispose Polidamante. – Sembra uno scalpitìo di cavalli.

– Visite a quest’ora? – ripigliò messer Bartolomeo. – Vedrete che sarà Filippino.

– Ma che! – disse allora Madonna Bianchinetta. – Sono appena tre giorni che l’abbiamo veduto.

– E tre giorni sono qualche volta un secolo; – ribattè egli ostinato. – Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere. —

Comparve indi a poco sull’ingresso della cantinata un famiglio, che tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:

– Magnifico signore, è qui messer Filippino.

– Ah, Filippino!.. Ma se lo dicevo io!.. Questo qua veramente mi ha preso a proteggere. —

Fior d’oro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.

– Già… ecco… – balbettò egli allora. – Volevo dire che m’ha preso a voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge. Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per tanta bontà. —

Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer Filippino sull’uscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e d’un bel biondo di stoppa, come la natura benigna ne dispensa qualche volta alla umanità bisognosa.

Frate Alessandro e don Garcìa, fatta riverenza alle dame, erano spulezzati al primo annunzio della visita illustre. Li avrebbe seguiti volentieri Giovanni Passano, ma non n’ebbe il tempo. Del resto, arrivato quel giorno come un messaggero di Gian Aloise, egli era anche in quella casa un parente. Non appariva dunque un intruso; non doveva riuscire importuno, se anche i due Fieschi avessero a parlare di cose per le quali era venuto alla Gioiosa Guardia egli stesso.

– Siete dunque voi, Filippino? – gridò il capitano Fiesco, dischiudendogli quasi le braccia, ma fermandosi a mezz’aria per istendergli le mani. – A quest’ora ci capitate? Di passaggio, m’immagino, e vorrete pernottare da noi?

– No, non di passaggio, vengo appunto per voi; – rispose Filippino, arrossendo un poco. – Del resto, è sempre piacevole capitare a Gioiosa Guardia, che è tanto ospitale e benevola. Sapete bene che quante volte ho da passare di qua, non mi lascio sfuggir l’occasione di riverir le dame e di stringer la mano a Voi. Questa volta sono ambasciatore, o messaggero, o cavallante, come vorrete chiamarmi. Ecco una lettera di Gian Aloise.

– Dell’eccelso Gian Aloise? – esclamò il capitano Fiesco. – La seconda in un giorno!

– Infatti, sì; – rispose Filippino. – Egli mi ha detto della commissione che aveva data al nostro Giovanni Passano. Ma nella lettera a lui consegnata aveva dimenticato un punto di capitale importanza. Allora egli ha chiesto a me se mi sarei sentito…

– Di montare a cavallo, non è vero? – interruppe messer Bartolomeo. – E di galoppare a Gioiosa Guardia, dove gli amici son sempre così lieti di vedervi? Ma galoppando così, Voi avrete anche dimenticato di cenare; e se permettete, s’imbandirà subito per Voi. Polidamante!..

– No, vi prego, non fate nulla di nulla. Sapevo di non giungere in tempo per la cena, ed ho mangiato un boccone dall’oste del Rupinaro. Piuttosto, – soggiunse Filippino con grazia, – l’ho ancora qua nella gola, e gradirò che mi diate da bere.

– Allora, faccia Polidamante l’ufficio suo, e Voi siate contento a modo vostro. All’ospite non bisogna dar noia, per desiderio di mettergli la casa sulle spalle; – conchiuse saviamente messer Bartolomeo. – Ma intanto, – seguitò, volgendosi al Passano, – eccoti qui un oste del Rupinaro, che tu hai saltato nella tua rassegna stradale.

– Non l’ho saltato; – rispose il Passano. – Ho solamente risposto di sì a tutti i nomi che Voi dicevate.

– E perchè non ho detto quello, tu l’hai taciuto, manigoldo? Ma leggiamo questa lettera, che dovrebb’essere la seconda ai Corinzii. —

Mentre il capitano Fiesco parlava così, disponendosi ad aprire la lettera, messer Filippino faceva riverenza alle dame. Fior d’oro, contro l’usanza delle nuore, stava molto ai panni della suocera; e messer Filippino, che aveva una voglia spasimata di bisbigliare qualche cosa molto sottile e molto profonda a madonna Juana, dovette contentarsi di dirne molte assai comuni e leggiere a madonna Bianchinetta, parlando della salute, del tempo, della strada percorsa, e di simili altre bazzecole. Ma anche a ragionare d’inezie c’è il modo di andar nel sublime, o almeno di rasentarlo, con un buon lavoro d’occhiate compassionevoli, tremiti di voce e soavi inflessioni d’accento. Ora in quest’arte Filippino era passato maestro.

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