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Rinaldo ardito
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Rinaldo ardito

Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Ludovico Ariosto

Rinaldo ardito / Frammenti inediti pubblicati sul manoscritto originale

PREFAZIONE

L'annunzio della stampa d'un'Opera del divino Ariosto, non solo inedita, ma quasi sconosciuta, e tale da essersene perfino impugnata da solenni scrittori la reale esistenza, ai nostri giorni in cui si è tanto rovistato e tanti disotterramenti si son fatti dalla polvere delle pubbliche e private Biblioteche ed Archivi, parve cosa mirabile e da reputarsi quasi favolosa, ove il fatto di per se stesso non rispondesse perentoriamente. L'Opera della quale ci avvisiamo parlare è il Rinaldo Ardito1, altro poema dell'Omero ferrarese, dettato da esso dopo l'Orlando Furioso, e sugli ultimi anni di sua vita. Ma perchè la storia bibliografica e letteraria di questo Poema è nuova del tutto, ed alquanto intricata, non sia grave al Lettore che noi vi spendiamo quel tanto di parole che servano a dilucidarla, ed a renderla piana ed incontroversa. Così operando, verremo a supplire al difetto del Ch. Fr. Reina Editore del Furioso della Collezione de' Classici di Milano, il quale nel 1812 prometteva corredare quella ristampa d'un comento, ed aggiungervi per la prima volta tutti i frammenti di un altro poema trovati fra carte dimenticate e già spettanti al D. Giuseppe Lanzoni. Onde non conoscendo le cause che lo impedirono a dar fuori quel comento, e a pubblicare questi Frammenti, ci lusinghiamo che egli avrebbe a grado che l'avessimo rilevato da questo secondo debito, se il cielo gli avesse concesso più lunga vita.

Antonfrancesco Doni fiorentino, uno degl'ingegni più bizzarri e fantastici che coltivassero le lettere italiane sulla metà del Secolo sedicesimo, fu il solo che nella Seconda Libreria2 palesasse ai dotti l'esistenza del nostro Poema, con queste nude e magre parole «Lodovico Ariosto, Rinaldo Ardito, dodici canti.» Ma al bugiardo (ed il Doni n'avea fama ben giustificata) non è creduto neppure il vero; cosicchè tutti coloro che parlarono della vita e delle opere di Messer Lodovico, dal di lui figlio Virginio sino al Tiraboschi, o si astennero dal registrare fra queste il Rinaldo Ardito, o lo rammentarono solo per causa di dileggio e di rimprovero al Doni, tacciando d'impostura e menzogna la notizia che egli ne dava. Nè questa imputazione, benchè dura e falsa, può dirsi moralmente temeraria, poichè non si credè presumibile che il Doni potesse conoscere tutti gli scritti del Poeta editi ed inediti al tempo suo, meglio di Virginio figlio amatissimo di esso, il quale conviveva seco lui, ne riceveva precetti e buon avviamento alle ottime discipline, ed aveva agio e libertà di leggere tutto ciò che il padre dettava. Ed in fatti fu questi che raccolse tutte le di lui poesie latine, e che nel 1545 dette ad Antonio Manuzio, che li stampò per la prima volta, i cinque Canti che seguono la materia del Furioso, o meglio preparati per altro Poema. Ma comunque la cosa si fosse, la verità è che il Rinaldo Ardito è esistito, ed in parte esiste; e forse il Doni lo vide completo in mano dell'Autore, o da esso medesimo n'ebbe contezza: e dico così, perchè niun altro ne fa parola. Però non saprei indagare la ragione per la quale gli piacque tenerlo celato ai suoi più cari e confidenti, pe' quali non avea segreto, e lo palesasse al Doni: in questa riserva è un qualche enimma, ed aspetteremo che sorga l'Edipo per darne spiegazione. Frattanto per non perdersi in vane induzioni e fallaci ipotesi sulla via che condusse il Doni alla conoscenza di questo componimento, proseguiamo il discorso diretto sul medesimo.

A questo lavoro par certo ponesse mano l'Ariosto dopo l'Orlando Furioso, e dopo il 1525; imperocchè nella stanza V a pag. 44 accenna già successa la prigionia di Francesco re di Francia, che avvenne in quell'anno sotto Pavia. Il Poeta morì nel 1533, appena compita la stampa da esso vegliata e corretta del Furioso, nè fra le Opere manoscritte da esso lasciate si fece motto da veruno trovarsi il Rinaldo Ardito; da questo silenzio io non saprei altro dedurre, o che non fu fatto un accurato esame di questi Manoscritti, il che non sembrerà verosimile, o che a quel tempo il Rinaldo non era più in sue mani, per averlo passato in quelle di qualche amico e confidente, il quale si tacque dappoi per ignota ragione sul prezioso deposito. Che il nostro Manoscritto fosse ab antico custodito nello stesso luogo ed insieme ad altre opere di questo Autore, ce ne fanno accorti le antiche macchie d'umidità che deturpanlo in più carte di seguito, macchie dello stesso colore e della stessa configurazione che vedonsi in molti altri de' suoi scritti originali, che conservansi nella Biblioteca comunale di Ferrara, e che perciò attestano aver corso sorte eguale al nostro, allorquando trovavansi insieme riuniti.

Fermata così l'esistenza effettiva e l'originalità del nostro Codice, ci manca il filo per proseguire la storia del suo destino, accompagnandolo nei diversi passaggi che sempre sconosciuto può aver fatti, dallo studiolo del Poeta alla copiosa e scelta raccolta di Opere a stampa e manoscritte, messa insieme con pene e dispendio dal D. Giuseppe Lanzoni Ferrarese, morto nel febbraio del 1730, e quindi nella libreria dei Marchesi Bevilacqua. E dicemmo sempre sconosciuto, perchè il Lanzoni stesso che era così generoso e cortese nel favorire ed accomunare cogli amici suoi l'uso della propria biblioteca, non conobbe o almeno non palesò a veruno il gioiello che egli possedeva; mentre nella Vita affettuosa e molto particolarizzata che di questo egregio e dotto medico scrisse Girolamo Baruffaldi il seniore,3 non vien neppure emesso il dubbio ch'egli possedesse il nostro Manoscritto. L'onore adunque di avere scoperto e messo in luce il ritrovamento dei frammenti del Rinaldo Ardito, d'averli esaminati e recatone fuori un saggio, si deve a Girolamo Baruffaldi il giovine, il quale nella Vita dell'Ariosto a pag. 172 ci fa sapere che ad altro poema eziandio pose mano, oltre a quello del Furioso: uno squarcio, o piuttosto abbozzo di esso fu trovato a caso tra le carte dimenticate del chiariss. Medico Ferrarese Giuseppe Lanzoni; ma riuscendo il manoscritto originale difficilissimo ad intendersi per la rozza scrittura, per la mala conservazione de' fogli, e per le varie cancellature, io non ho potuto relevarne interamente, che alquante stanze, quali saranno poste in fine… Io non peno a credere, abbenchè il Barotti lo neghi, che questo possa essere il Poema dall'Ariosto intitolato il Rinaldo, come accennò il Mazzuchelli sulla relazione del Doni; conciossiachè nel Canto IV.4 diffusamente parlasi di questo Paladino, delle sue imprese, de' suoi viaggi e della sua donna Bradamante5… Ed i frammenti da me veduti non sono che un primo abbozzo informe in molti luoghi scorretto fino al leggervisi una stanza scritta seguentemente di soli sette versi6.

Era oltrepassato mezzo secolo dalla morte del Lanzoni al tempo che il Baruffaldi scriveva la vita dell'Ariosto, di maniera che avrebbe potuto manifestare la persona presso la quale egli ebbe agio di studiare e trascrivere degli squarci del nostro Codice, nè saprei indovinar la causa per cui si tacque: era forse tuttora in casa Bevilacqua?.. Ma tralasciando le congetture, e venendo alla storica certezza, diremo che il Sig. Canonico Vincenzio Faustini, uomo fornito di buone lettere, ereditò dal padre suo il nostro Codice, ed a noi come possessor legittimo ne fece legittima cessione nel luglio dell'anno decorso; onde io mi do a credere che essendo il padre del Sig. Can. Faustini assai versato in questi studj e nella paleografia, ed avendo vissuto negli anni in cui per straniera invasione tanti insigni stabilimenti rimasero soppressi, e tanti pubblici e privati monumenti di libri e scritture andarono dispersi o per ignoranza distrutti, fu una fortuna che queste preziose reliquie venissero alle mani di lui, che seppe raffigurarle e tenerle nel pregio che meritavano. Quindi se mancano ad appagare la curiosità del Lettore notizie positive e speciali sulla sorte corsa da esse, ciò vien largamente compensato dalla sodisfazione che gli deriverà dal percorrere queste pagine, ove stampava sì luminose tracce della fecondità del suo immortal genio il Cantore del Furioso; e se qualche gusto gli rimane della buona poesia, e se qualche scintilla d'amor patrio gli scalda le vene, sarà contento aver veduto in questa età aumentarsi il patrimonio delle nostre lettere, e di nuove fronde rinfrescarsi la corona immortale che cinse l'onorata fronte del Poeta che, se Dante non era, sarebbe per primo inchinato.

Che poi questi Canti fossero dettati per innestarli all'Orlando Furioso, come opinò taluno, oppure dovessero unirsi ai cinque altri postumi pubblicati da Virginio, la lettura attenta dei medesimi, ed il filo delle storie che vi son narrate, benchè interrotto, mostrano chiaramente che questa opinione non ha sussistenza; imperocchè il Furioso fu in ogni sua parte perfezionato dal Poeta nell'edizione del 1532, e tutte le storie intessutevi hanno il loro pieno sviluppo particolare. Di più nel Rinaldo compariscono personaggi ed attori diversi da quelli rammentati nell'Orlando, e toltone tre o quattro, nuovi affatto. E finalmente alla pag. 45 si allude ad alcuni avvenimenti storici occorsi in Italia al tempo dell'Ariosto, che erano stati narrati prima nei Canti III, XIV e XXXIII dell'Orlando; cosicchè se questi Canti fossero stati destinati ad inserirsi in esso, ne sarebbe resultata un'inutile ed oziosa ripetizione di fatti; però l'inesauribil vena del Poeta non abbisognava di tali sussidj, nè l'avrebbe consentito l'alterezza del suo genio. Mi fo meglio a credere che, avendo ideato questo nuovo Poema, volle mostrare ad Alfonso suo Mecenate, che non si lasciava fuggire occasione di cantare e ricantare le sue belle imprese, ogni volta che gli cadeva in acconcio di farlo solennemente.

Il titolo di Rinaldo Ardito, credo che sia stato dato al poema, perchè apparisce dalla pag. 31, che questo famoso Paladino, protagonista dell'azione, onde ottener certa vittoria sull'esercito infedele, si travestisse da Saraceno, e sotto le mentite spoglie potè conoscere le forze del nemico; quindi dopo aver tutto esplorato, allorchè i due eserciti stavansi a fronte, avendo per mezzo della sorella Bradamante avvisato dell'inganno i capitani di Carlo, pose lo scompiglio nel campo nemico, e coll'aiuto dei Cristiani accorsi in tempo, disfecero l'oste pagana; e termina l'impresa colla conversione al Cristianesimo dei principali condottieri Saraceni e di Fondrano loro capo e Signore. Questo in breve pare che fosse il concetto del Poeta, innestandovi al solito vaghissimi episodj, che per la loro varietà e pel loro festivo colore ne rendono oltremodo gradevole la lettura.

Accennata la storia del nostro Codice e del suo contenuto, ci resta da prevenire il Lettore sull'ordine da noi seguito in questa prima pubblicazione, cominciando dall'esatta descrizione del Manoscritto qual si trova attualmente. Questo si compone di trenta carte numerate modernamente da una sola parte, e distribuite in quattro quinternetti. Il primo di essi conduce da 1 a 6; il secondo da 7 a 14; il terzo da 15 a 22; ed il quarto da 23 a 30. È necessario però avvertire che il terzo è contrassegnato nel margine inferiore della pag. 15 di mano dell'Autore con b, ed il quarto medesimamente a pag. 23 con D: il primo e secondo non portano segnature; ogni pagina contiene quattro ottave, meno che la 2 che ne ha cinque, la 19 la quale ne ha otto, scrittevi a doppia colonna, e la 29 che ne ha tre; cosicchè formano nell'insieme dugento quaranta quattro ottave. Ai quattro quinternetti serve di custodia una cartella di rozzo cartone bianco, che in avanti fu destinata a conservare dei conti e delle ricevute. Un cordoncino di seta rosso trapassa nella costola per traverso il cartone e i quinternetti, ed è fissato in fine con nodo; i due capi di esso poi son fermati nell'interno con cera di Spagna e sigillo della pubblica Biblioteca di Ferrara, ad autenticare il Certificato che qui si riporta in nota7.

Ora venendo alla disposizione materiale della stampa, la lettura del Manoscritto, nell'ordine in cui si trova, ci fece dubitare che le carte non seguissero regolarmente e con progresso razionale la materia, ma che i quinternetti fossero stati a caso in tal guisa disposti; ed il dubbio dell'interpolazione divenne certezza, quando le segnature del terzo e quarto c'indicarono chiaramente, che questi invece dovevano precedere i due senza segnatura: ed a questa via ci attenemmo. E volendo che il Lettore si convinca co' propri occhi della giustezza della nostra risoluzione, s'imagini che la stampa nell'ordine del Codice avrebbe cominciato da pag. 46 colla stanza X. fino a pag. 85 stanza XXX., avrebbe proseguito colla pag. 1 stanza I. fino a pag. 46 stanza IX., talchè alla lettura in questo senso ne resulta la narrativa de' casi incomposta ed a ritroso. Ed in fatti, nella nuova disposizione, si trovano in principio alcuni capitani infedeli combattenti contro l'esercito cristiano, quindi si veggono abbracciare il Cristianesimo ad insinuazione d'Orlando. Vi si legge pure un'avventura di Ferraù, il quale cade per inganno nell'acqua, e per forza d'incanto si vede trasportato nel giardino di Venere, ove è presente al trionfo d'Amore ec. ec. dovecchè adottando l'altro modo, ne sarebbe derivato una mostruosità, non procedendo naturalmente il filo della materia e degli avvenimenti raccontati.

La ragione per la quale si è creduto bene render minutissimo conto di questo nostro materiale riordinamento, deriva dall'aver voluto fuggir la taccia d'arbitrarj, ove cadesse in mente a taluno raffrontar la stampa col manoscritto, giacchè ne piacque conservarlo religiosamente intatto ed inviolato nella sua compaginazione, alla quale va unita la preziosa autentica dell'originalità ed autografia del medesimo; onde precludere affatto il campo agli scettici, ai maligni ed agli ignoranti di sentenziare a sproposito. E giudicammo opportuno questo schiarimento, solo per quanto concerne la materialità del codice; che quanto al merito poetico, alla vivacità delle immagini ed al pregio dell'invenzione, tocca al Poeta a svelarsi, e a dar di se quelle prove irrefragabili che per unico lo caratterizzano, e per le quali come astro fulgidissimo risplende nell'italiano Parnaso: nè qui temiamo esserci ingannati.

Ora venendo al modo da noi adoprato nel dar fuori questo lavoro, diremo che siamo stati scrupolosissimi a produrre il testo nella sua genuinità, riportandone perfino le voci viziate per eccesso o per difetto od anche per trasposizione di qualche lettera, rettificando però le principali in piè di pagina, affinchè non si credessero errate per colpa nostra. La stanza V del C. II, la XVI e XXVII del C. IV, si son lasciate difettose nella loro tessitura, nè ci prendemmo briga di raddrizzare qualche verso zoppicante; tutte negligenze comprovanti maggiormente l'originalità di questo primo getto, che l'Autore avrebbe eliminate dappoi, e che veruna pena ci sarebbe costato il togliere. Le frasi e gl'intieri versi rigettati e cancellati dal Poeta, sostituendovi quelli che gli parvero migliori, si son riportati in calce come varianti, per mostrare sensibilmente l'ordine delle concezioni di quel prepotente ingegno. Quanto poi alla puntuazione, ci siamo tenuti a quel metodo che credemmo il più conveniente ed il più seguito, quello cioè di agevolare possibilmente l'intelligenza dei concetti, senza gran fatica nè bisogno di ricorrere per tortuose ambagi il filo del discorso. Ai Canti si è dato abusivamente un numero progressivo dal I al V; non perchè così ce li abbia indicati l'Ariosto, ma pel comodo del Lettore e delle citazioni; giacchè Esso nei titoli lasciò in bianco la numerazione, e di sua mano non numerò che il terzo, il quale, per la lacuna indefinita tramezzo, siamo stati obbligati a chiamar quarto; a questa numerazione si son pure subordinati gli altri, che da penna più moderna e con altro inchiostro erano stati notati. Per servire egualmente alla comodità, si sono numerate le stanze d'ogni Canto, tornando da capo a ciascuno, come è stile; e dove esistono lacune, non si è omessa l'avvertenza.

Resa sommariamente ragione di questa qualunque siasi fatica, onde impetrare alla medesima, se non il suffragio generale, almeno il benigno compatimento dei dotti, potremmo addurre a favor nostro le assidue e gravi cure sostenute di buona voglia nel breve ma spinoso aringo, non che le vinte difficoltà, che parvero quasi insuperabili al Baruffaldi, il qual pure avea tanta dimestichezza cogli scritti dell'Ariosto8. E la conferma della di lui genuina confessione si presenterà a chiunque si dia a confrontare le stanze da esso pubblicate per saggio di questi Frammenti, dalla pag. 310 alla 314 della rammentata Vita del Poeta, con quelle stesse ristampate da noi; e speriamo che questo ragguaglio porrà in maggior chiarezza le diligenze da noi usate.

Forse non mancherà chi disapprovi ed anzi condanni lo zelo di aver messo in luce un'Opera mutila ed informe in molte parti, quale sfortunatamente si è questa. Per costui non abbiamo discolpa, nè sapremmo fargli altra risposta, che mostrandogli un gran numero di opere di sommi scrittori greci e latini, che hanno avuto la stessa sorte, avvalorando la nostra sentenza col giudizio di tale, che nè la materia nè il luogo consentono di nominare9. Gli additeremmo ancora tanti e tanti bellissimi antichi capolavori in bronzo ed in marmo, che si ammirano ne' Musei, i quali non sono che insigni monumenti dell'Arte più o meno frammentati. E questi scritti e questi monumenti ci saran sempre di modello, rimanendo a testificare dell'eccellenza degl'ingegni che li produssero, ed a rimproverare mutamente l'incuria, l'ignoranza o la perversità degli uomini che li ridussero in tale stato, e risveglieranno nel cuore dei buoni almeno il desiderio che sorga chi vaglia a ristorarne del danno.

Finalmente poichè colla stampa collettiva di più componimenti d'uno stesso Autore (i quali pubblicati a parte in varie occorrenze divengon rari e fuori di commercio) si provvede alla maggior diffusione dei medesimi, e posson considerarsi come rami che si ricongiungono al tronco principale, così credemmo incontrare il pubblico gradimento riproducendo la gentilissima Canzone colla quale Messer Lodovico piangeva la partenza da Firenze per oltremonte della sua Ginevra10. Il Ch. Sig. L. M. Rezzi la trasse in luce per la prima volta da un codice miscellaneo Barberiniano, in occasione dei fausti sponsali di Donna Carlotta Luisa Barberini col Marchese Raffaele Casali del Drago, rivendicandola con critico ragionamento al nostro Autore, e ponendone in bella mostra i delicati pregi che l'adornano.

CANTO I

............ICosì poteansi ritenere appenaI cavalier di non entrar la ciuffa11,E a ciascuno il tardare era gran pena,Nè può star fermo e si apparecchia e buffa;Di quei si parla che hanno animo e lena,Chè a un vil codardo incresce ogni baruffa,Come chi va alla forca, e che prolunga,Perchè quanto più può tardi vi giunga.IIArtiro e Salomone alla avanguarda,L'uno Affricante, e l'altro Cristiano,Stan per ferirsi in punto, e ciascun guardaAl segno general del capitano;Or dato il segno, alcun più non ritarda,E all'inimico va cum12 l'arme in mano;Ma prima ch'entri in così orribil guerra,Feraguto vo' trar dall'aqua in terra.IIIOrmai tanto che dentro vi è caduto,Che non dovrebbe aver di ragion sete;Sapete come cade13 Feraguto?Cum quale astuzia cade augello in rete;Egli avea già nelle aque il cuor perduto,Nè ad altro pensa che alla strema quiete,Che essendo armato, e d'armi di gran pondo,Non potendo nuotar, discese al fondo.IVNè crediate ch'al fondo già restasse,Anci14 di là dal fondo fu tirato,Che una dama gentil subito il trasseFuora delle acque in luoco assai più grato;Nè già pensò che 'l ciel tanto lo amasse15,Vedendosi nelle onde trabuccato;Ma il cielo il tutto a suo modo dispensa,E spesso all'uomo avvien quel che non pensa.VCome chi per errore o per disgrazia,Cui sotto il ceppo ha il col16 per esser morto,E fatta gli vien poi subito graziaPrima che moia o per ragione o torto,Che attonito rimane e il ciel ringrazia,E quasi muor di subito conforto:E così appunto a Feraguto accade,17Vedendosi ritrar dove pria cade18.VIFu in una ciambra19 il cavalier conduttoChe tutta di cristallo era smaltata;Il palco tutto a specchi era costrutto,E intorno intorno tutta ad or frissata20;Vedendosi il barone ivi ridutto,Gli fu tal sorte allor non poco grata,E tutto che suspetto ancora stava,Pur più ch'in l'umide acque ivi sperava.VIIE volto Feraguto alla donzella,Deh dimmi, dama, disse, se ti agrada,Chi sei, e come è qua stanza sì bella,Che in fondo alle acque mi par cosa rada?21A Feraguto allor rispose quella:Sappi ch'io fui nemica a quella Fada22Che poco anzi occidesti, e d'ogni intornoFaceva a' circumstanti iniuria e scorno.VIIIE quella son che ti donai quel tantoLucido, adorno e prezioso scutoCum che vinto hai la Fada e ogni suo incanto,A te di onore e a' circumstanti aiuto;E de infiniti sol ti puoi dar vantoAvere un tal triunfo oggi ottenuto,Di che grato non solo agli uomin sei,Ma fatto ne hai piacere insino a i Dei.IXLa Fada di coloro era nemica,Che d'altre che di lei fussero amanti;Anci ogni industria usava, ogni faticaPer rovinarli; e ben ne ha occisi tanti,Che indarno è lo espettar, baron, ch'io dicaQuanti ne ha uccisi la malvagia, e quantiPresi e in pregione morti per disagio,Vetando loro il cibo, e il stare ad agio.XOnde tanto costei Venere adontaChe sol di lei cercava aspra vendetta,E23 a tale impresa in fin persona prontaL'amorosa mia don24 gran tempo espetta;Ma solo hai vendicato ogni sua onta,E però ne serai persona eletta,A Vener grato, e per il tuo valore25Fortunato serai sempre in amore.XIE quantunque infelice per adrietoSempre sii stato in l'amoroso laccio,Nell'avenir serai jucundo e lieto,Poi che distolte26 ne hai di tanto impaccio;E perchè intendi quel che ti è secreto,Quel che richiesto me hai io non ti taccio:Sappi che ninfa son nasciuta in l'acque,E di questo liquor sto corpo nacque.XIIDelle Naiade son la più onorata,27(Che così d'acqua son le ninfe dette)28Liquezia ho nome, e a Venere dicata,Sono delle sue care e più dilette,29E a te fui col bel serto mandata30Per animarti a far le sue vendette;Questa è mia stanza: e qui poserà tantoCh'io torni a rivederlo in l'altro canto.

CANTO II

IBenchè da poi che 'l Redentor del mondoDimostar31 volse un sol Dio trino et uno,Ogni idol falso32 rovinasse al fondo,Pur fra' pagani ancor ne restò alcuno;Che li33 altri Dei, eccetto il ver, secondoDebbe di nuoi34 fedel creder ciascuno,Erano di Pluton seguaci rei,Che la gentilità chiamava Dei.IIMa per la morte, e pel misterio sacroDella acerba passion del Verbo eterno,Qual segnò i suoi di quel santo lavacroChe lava in nuoi ogni peccato interno,Restò a Plutone il mondo acerbo et acro,E ritrarse gli fu forza all'Inferno;Nè falso alcuno Idio restò a' cristiani,Ma qualche illusion fra li pagani.IIIE però a alcun di vuoi strano non paiaSe a Feraguto quella ninfa apparve,Qual si chiamava dell'altre primaia,O fusser corpi veri o finte larve,Pur parea corpo quella ninfa gaia,Se con qualche ragion debbo parlarve:Non sciò35 come altro giudicar si possa,Chè un spirto non si tocca in carne e in ossa.IVToccavassi36 ella e ragionar se odiva,E porse a quel baron37 lo illustre scuto,A cui, da poi che 'l suo parlar finiva,Rispose allor sagace Feraguto:O sii donna mortale, o eterna diva,Eternamente ti sarò tenuto,Che in dui perigli, fuor d'ogni speranza,In l'un scuto mi desti, in l'altro stanza.VMa qui se fai ch'a Venere io sia grato,Nè mi trovi in amor tanto infelice,Ch'io non vi fui giamai aventurato,Pur ch'io vi fussi un tratto almen felice,Io mi reputarei sempre beato.Che tanto un sol piacere a un miser vale,Che gli rimette39 ogni passato male.VIMa non sciò, ninfa,40 se ragione o erroreSia, che sperar mi fa di questo puoco:41Come esser può che a quella Dea d'amore,Che altrui suole infiammar, piaccia tal luoco?Esser non può che in umile liquoreProdur si possa, e conservarsi, il fuoco,Il fuoco che più al cor d'ogni altro preme,Che mal pon stare dui contrari insieme.VIIBen mostri, alto baron, vivace ingegno,Disse la dama, e razional discorso,Che cum la forza uniti ti fan degnoDi conseguir d'amor dolce soccorso;Spera, che fine arai al tuo disegno,E alla sventura tua42 porrai il morso,Quanto ad Amore e Venere si spetta,Benchè tua mente in ciò dubbia e suspetta.VIIIMa dubitar non dei, che 'l fuoco pasceIn umido43 liquore e si conserva,Come in vuoi il calor nativo nasceIn radicale umor, che in vita servaNel materno alvo l'uomo e nelle fasce,44E sempre umor da morte lo preserva;E in la lucerna piccoletta fiammaIn oleo e in altro umor se aviva e infiamma.IXPerò Venere infiamma e si dilettaDi quello umor che sta col caldo insieme,Anci nel mar di spuma fu45 concettaVenere in cambio di genital seme;La cosa non dirò, baron, perfetta,Però che l'onestà la lingua preme,Et a una donna, ancor che meretrice,Lo inonesto parlar sempre desdice.XIl viver di Saturno, e ciò che feceAl padre suo, mi converria narrarte;Ma questo ad uomo più che a donna lece;Bastammi46 a dir la più opportuna parte,E che come la fiamma in oleo o in pece,Così in l'umor stia il caldo, dimostrarte;Nè ti sia cosa nova e inusitata.Che una Naiade a Vener sia dicata.XIO felice colui che intender puoteIl secreto poter della natura!O quante cose sono al mondo ignoteChe l'uomo di sapere ha puoca cura;E se fussero a nuoi palesi e noteProcederia ciascun cum più misura.Da te ben resto chiaro e resoluto,Rispose a quella dama Feraguto.XIIMa pregote, dapoi che mi hai promessoFavorire47 in amore i miei disegni,Che quando un tanto don mi fia concessoDi amar cum frutto, me ne mostri segni;Che sempre duolse, puoi48 che in speme è messo,A cui come sperava non li avegni:Sicchè, dama gentil, fa' poi ch'io sapiaQuando tal grazia in mia persona capia.XIIIRispose allor la vezzosetta dama:Io sempre fui fedele a chi mi crede,E Vener anco, e chi infedel la chiama,Non ben dicerne49 quel ch'amor richiede;Fidelità conviensi a chi bene ama,E dir si suol che Amor sempre vuol50 fede;Ma acciò ch'in breve il tuo desir consegui,Conviene che più oltre ancor mi segui.XIVRispose quel baron: guidami pure,Se ben volessi, giuso ai regni stigi,Che disposto51 mi son, dama, condureDove ti piace pronto a' tuoi servigi.Ma mi bisogna52 l'animo ridureDove lassai, io credo, Malagigi,Il qual, se vi rimembra, in l'altro cantoVi lassai cum ragion jocondo tanto.XVIo vi lassai di ciambra già partitoDella regina, e l'uno e l'altro lieto,Che tanto l'uno a l'altro era graditoChe ciascun di essi ne restava quieto;Desidra la regina che finitoPresto sia il giorno al suo piacer secreto,E sol la notte a lei felice espetta,Che Amore è cieco, e notte gli diletta.XVIE senza altro pensare, un suo fidatoAccorto servitor chiamò quel giorno,A cui disse, se sei, come hai mostrato,Sempre nemico a chi mi vuol far scorno,Prego che vadi più che puoi celato,E Orlando trovi cavaliero adorno,E nostro capitan, se sciai qual sia,E questa gli darai da parte mia.XVIIE una lettera in mano al messo porse,Che del suo amore il conte reavisava;53Dopo molte proferte, il servo corseAl finto non ma al ver conte54 di Brava:Il conte poi che del sigil si accorse,La lettra prese, e altro non parlava,Anci notando55 il servo, in man la piglia,In atto d'uom che assai si meraviglia.XVIIISciolsella56, e prima sotto57 lesseIl nome di chi a lui la scrive e manda;Subito il resto a leger poi si messeDi tal tenore = A te si aricomanda,Conte, colei che per signor ti ellesse,E sol ti apprezza, e solo ti dimanda;Pregate, come la notte passata,Questa altra ancor ti sia racomandata58.XIXRimase il conte alle parol suspeso,E di notte non scià, nè de che scriva;Ma pur per coniettura ha in parte intesoQuel che chiedea la donna, e le agradiva;Scià ch'ella già lo amava; onde compresoHa che di novo in lei lo amor si aviva;Ma pur di quel che ha letto assai si ammira,E di novo la lettra or lege, or mira.XXE alla proposta subito rispose,E rescrisse una a lei di tal tenore:Regina mia, nelle importanti coseVostre del regno sol vi mostro amore;Ma in altre trame occulte et amorose,Non fui mai vosco; onde pigliate errore:Nè sta notte nè mai giacqui cum vui;Credo ch'in cambio mio godesti altrui.XXIDiede la lettra il conte al fido messo,Che alla regina appresentolla in mano;Ella vedendo il servo, al primo ingressoAllegrossi, ma poi fu il gaudio vano,Che poi che della lettra intese espressoTutto il tenor, le parve il caso stranoD'esser schernita, e che ciò59 niegi il conte,Che pure il vide seco a fronte a fronte.XXIIE cominciò a dolersi la reginaAllor del conte assai cum voce pia;Lacrimando diceva: ahimè mischina,A chi dei l'alma e la persona60 mia!Ad un che fu la notte, e la mattinaDimostra ingrato che più mio non sia;E a me che io il vidi, e sciò che fu certo elloNon si vergogna dir, che non fu quello.XXIIINol vedeste, occhi vui, che le fattezzeAvea del conte? io sciò che non errasti;Ora son queste, Orlando, le prodezzeChe per mio amore usar prima pensasti?Se pur non ti piacean le mie bellezze,(Che poco sono) a che, crudel, le usasti?A che sì piccol tempo le godesti,E da me, ingrato, come vil ti arresti?XXIVForse ch'io non ti son piacciuta quantoCredevi prima, ahimè, solo a vedermi?61Ma perchè, ingrato, tante volte e tantoQuella notte tornasti a rigodermi?Se allor bella non fui, come di mantoAdorna poteva altri e tu62 tenermi?E se a me più tornar pur non volevi,Negarmi esser lì stato non dovevi.XXVDall'altro canto il conte Orlando stavaSuspeso assai, nè scià quel che si dire;La cosa ben come era imaginava,Ma non la scià per lo ben colorire;Che essa l'avesse in fal preso pensavaPer cieca volontà, per gran desire,Nè scià chi possa avere audacia presaDi essere entrato in una tanta impresa.XXVINon scià come essa lui in fal pigliasse,Nol cognoscendo al viso e al proprio aspetto,Nè scià ch'in faccia lui rapresentasseSalvo Milone, a lei figlio diletto,Qual non si crede63 che alla madre usasseTanta sceleritade, tanto diffetto64,E stette in tal penser tutto quel giorno;Ma il conte io lasso, e a Malagigi io torno65.XXVIICredendo Malagigi ritornareAlla regina la notte seguente,Nel mezzo di quel dolce lamentare,Che faceva ella del suo error dolente,Andolla Malagigi a visitare,Che non sapea della regina66 nienteQuel che dolesse, anci a lei venne alloraCum la sembianza di quel conte ancora.XXVIIIFu dalla più secreta camarieraPortata alla regina la novella,Come ad essa il gran conte venuto eraPer visitarla, se piacesse ad ella;Tutta turbossi la regina in ciera,E in mille parti il sdegno la martella,E dubita di dui qual debbia fare,O se lo escluda, o pur lo lassi entrare.XXIXNon scià quel che si far, tutta è commossa,Non scià se contradica o se consenta,Ma l'amor più che l'ira ebbe gran possa,Sì che a lassarlo entrar restoe contenta;La camariera ad introdurlo mossa,Avanti alla regina lo appresenta,E Malagigi non sapendo il fatto,A lei si appresentò cum allegro atto.XXXMa ella cum sembiante assai mansueto,Cum occhi mesti a guisa di turbata,Non ben rispose a Malagigi lietoCome pensò vedere alla tornata;Ma non per questo se ritrasse adrieto;Ma dimostra egli faccia allegra e grata,67E accarecciar68 la donna allor non resta,Pensando che per altro ella stia mesta.XXXIMa senza altro parlarli, la reginaLa lettera del conte al baron diede;Presella69 quello, e subito divinaDove il gran sdegno di colei procede:E più cognosce ancor la sua ruinaChe la lettra del conte in scritti vede;La lettra lesse, e poi rivolto a leiDisse, regina, per un scherzo il fei.
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