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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I
Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro, i quali reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli ambasciadori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono loro, che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale, acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro agli affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali e di ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi incominciavano a sorgere, stantechè sebbene fosse stato continuo il vigilare del governo, e continue le provvidenze date, non s'erano potute evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri, moti nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più o meno nelle altre parti d'Italia; che per verità attentamente s'affaticavano in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte radici, per chiudere i passi ai malvagi mandatarj, per iscoprir le congreghe segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi quale dei due alfine avesse a restar superiore o la vigilanza dei governi, o la pertinacia dei novatori, se non si prendevano nuove e più accomodate risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva che i principi d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e difesa comune; poichè quello, che spartitamente non avrebbero potuto conseguire, l'avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi comuni. Aggiunsero, che per verità questo disegno era già loro venuto in mente da gran tempo, di tanta opportunità egli era; ma che gli aveva ritirati dal proporlo il sapere che Giuseppe, imperatore d'Allemagna, pareva volersi condurre ad assaltar con l'armi nel proprio loro covile quei nemici dell'umanità e della religione; che ora, cambiate le circostanze per la morte di Giuseppe, e volti i pensieri di Leopoldo suo successore piuttosto a preservare, e conservare il proprio, che ad assalir l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno di ordinare, e di stringere i vincoli di una comune difesa; che già il fuoco era vicino a consumare la Savoia; che il Piemonte era in procinto di ardere; e chi avrebbe potuto prevedere le calamità d'Italia, se non si spegnevano queste prime faville? che però, visti i pericoli sì gravi e sì imminenti, il re giudicava doversi, più presto il meglio, stringersi una lega fra tutti i potentati d'Italia, non già diretta a danno altrui, ma solo a preservazione propria, a tenersi guardati l'un l'altro dalle insidie dei mandatarj francesi, a mantener la quiete negli stati, a parteciparsi vicendevolmente le notizie sulle faccende presenti, e ad ajutarsi con l'armi e coi denari ove nascesse in questo luogo, od in quello qualche turbazione. Nè pretermisero i ministri Sardi di spiegar meglio quali dovessero essere i membri della lega, nominando particolarmente il re loro signore, l'imperatore d'Allemagna, la repubblica di Venezia, il papa, il re di Napoli ed il re di Spagna per la parte di Parma. Il re di Sardegna s'era già chiarito per alcune pratiche segrete della mente dei re di Napoli e di Spagna, che acconsentivano ad entrar nella lega; il papa vi si accostava ancor esso, siccome quello che ardeva di sdegno a cagione delle innovazioni effettuate in Francia circa gl'interessi spirituali e temporali della religione. Solo la repubblica di Venezia se ne stava sospesa, considerando quanto questa lega, ancorchè apparisse pacifica e meramente difensiva, avrebbe fatto ingrossar le armi in Italia, e chiamato forti eserciti di Allemagna, se le cose venute all'estremo avessero necessitato l'esecuzione; cosa sempre, e non senza cagione detestata da quella repubblica. S'aggiungeva, che non avendo essa pur testè voluto collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale ed eterno nemico dello stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto le male parole da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato lo stringersi ora in alleanza con Leopoldo suo successore in una impresa evidentemente dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la Francia, amica vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il timore, che aveva il senato delle nuove massime francesi; poichè la natura Italiana molto eminente negli stati Veneti efficacemente si opponeva alla loro propagazione: poi le consuetudini da tempi antichissimi radicate nell'animo dei popoli, e l'amore che portavano al loro governo, non consentivano; ma erano continue, e forti le istanze del re di Sardegna, e degli altri alleati, acciocchè il senato si risolvesse, perchè, se non avevano molta fede nelle armi Venete, avevano gran bisogno del nome e dei denari della repubblica.
Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime deliberazioni, ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla Prussia dopo la morte di Giuseppe, e l'assunzione di Leopoldo. Erasi Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza comune contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia, e contro le vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi, non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose essere stata stipulata la guerra, e lo smembramento della Francia, furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni guerriere ed ostili, che non fece, e per stimolare a maggior empito i Francesi, che già con tanto empito correvano.
Ma morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco, principe giovane, ed ancora inesperto delle faccende, i negozj pubblici si piegarono a diverso, anzi a contrario fine. Caterina di Russia, la quale, visto il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo, si era constituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in Europa, la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con molte protestazioni volerlo rinstaurare. Non doversi, spargeva, un re virtuoso lasciar in preda a gente barbara; diminuita la potestà regia in Francia, diminuirsi ancora per riverbero in tutti gli altri regni; avere gli antichi per rispetto di un solo proscritto, preso le armi contro stati potenti: perchè si resterebbero i principi d'Europa dal correre in ajuto di un re, e di tutta una famiglia regia prigione, di tanti principi esuli, di tutto il fior d'un regno perseguitato e ramingo? l'anarchìa esser il pessimo dei mali, e più quando veste le sembianze della libertà, perpetuo inganno dei popoli; tornare l'Europa nella barbarie, se presto non si rimediasse; quanto a lei, essere parata ad opporsi con tutte le forze sue alla moderna barbarie, come Pietro il Grande, glorioso suo antecessore, aveva combattuto e superato un nemico ostinato, e sempre pronto ad infestar con l'armi i popoli vicini. Ora esser tempo d'insorgere, ora di unirsi, ora di pigliar l'armi per frenar quegli scapestrati di Francia: ciò richiedere la pietà, ciò domandar la religione, ciò volere l'umanità, ed ogni più santo, ogni più utile interesse d'Europa.
Queste, ed altre simili cose diceva continuamente Caterina, ed insinuava destramente nell'animo dei principi, massimamente di Francesco e di Federigo Guglielmo. Nè mancarono a se medesimi in tale auguroso frangente i fuorusciti francesi, e più i più famosi ed i più eloquenti, i quali erano indefessi nell'andar di corte in corte, di ministro in ministro per raccomandar la causa del re, la causa stessa, come affermavano, dell'umanità e della religione. A queste instigazioni l'imperatore Francesco, che giovane d'età aveva già assaggiato la guerra all'assedio di Belgrado, deposti del tutto i pensieri pacifici di Leopoldo, e non dando ascolto ai ministri, nei quali suo padre aveva avuto più fede, accostossi ai consigli di coloro, che dipendendo dalla Russia, lo esortavano ad assumere l'impresa, ed a cominciar la guerra. Dal canto suo Federigo Guglielmo, principe di poca mente, ma d'indole generosa, impietositosi alle disgrazie della casa reale di Francia, e ricordandosi della gloria acquistata da Federigo secondo, si lasciò svolgere, e postosi in arbitrio della fortuna corse anch'egli all'armi contro la Francia.
Noi non descriveremo nè la lega, che seguì tra la Russia, l'Austria, e la Prussia, nè il congresso di Magonza, nè la guerra felicemente cominciata, e più felicemente terminata nelle pianure della Sciampagna. Quest'incidenza troppo ci allontanerebbe dalle cose d'Italia. Incredibile era l'aspettazione degli uomini in questa provincia, e ciascuno formava in se varj pensieri secondo la varietà dei desiderj e delle opinioni. Il re di Sardegna, spinto sempre dalla brama di far chiaro il suo nome per le imprese d'armi, stimolato continuamente dai fuorusciti francesi, che in grandissimo numero s'erano ricoverati ne' suoi stati, e lasciandosi tirare alle loro speranze, certo molto più che a uomo prudente si appartenesse, aveva meglio bisogno di freno che di sprone. Intanto non cessava di avviar soldati, armi e munizioni verso la Savoja, e nella contea di Nizza, parti del suo reame solite a sentir le prime percosse dell'armi francesi, e donde, se la guerra dal canto suo fosse amministrata con prospero successo, poteva penetrar facilmente nelle viscere delle province più popolose, e più opime della Francia. Nè contento alle dimostrazioni, ardeva di desiderio di venirne prestamente alle mani, persuadendosi che le soldatesche francesi, come nuove ed indisciplinate, non avrebbero osato, non che altro, mostrar il viso a' suoi prediletti soldati. Ma o che l'Austria e la Prussia abbiano creduto di terminar da se la bisogna, marciando sollecitamente contro Parigi, o che credessero pericoloso pel re di Sardegna lo scoprirsi troppo presto, lo avevano persuaso a temporeggiare fino a tanto che si fosse veduto a che termine inclinasse la guerra sulle sponde della Matrona, e della Senna. Così mutate le cose per la morte di Leopoldo, e pei nuovi consigli di Francesco, il re di Sardegna, prima talmente rispettivo, che altro non pretendeva che una lega fra i principi Italici a difesa comune, ora datosi in preda allo spirito guerriero, gli pareva mill'anni, che non cominciasse a mescolar le mani con la Francia.
La subitezza di Vittorio Amedeo, e la lega dei re contro la Francia, diedero non poco a pensare al senato Veneziano, e lo confermarono vieppiù nella risoluzione presa di non pendere da nissun lato, quantunque la corte di Napoli gli facesse frequenti e vivissime instanze, affinchè aderisse alla lega Italica. Ma prevedendo le ostilità vicine anche dalla parte d'Italia, il che gli dava sospetto che navi armate di potenze belligeranti potessero entrar nel golfo, e turbar i mari, e forse ancora che altri potentati d'Italia non forti sull'armi navali, gli domandassero ajuti per preservar i lidi dagl'insulti nemici, ordinò che le sue armate, che ritornate dalla spedizione contro Tunisi stanziavano nelle acque di Malta e nell'isole del mare Ionio, se ne venissero nell'Adriatico. Veramente essendo stato richiesto poco dopo dai ministri Cesareo, e di Toscana, che mandasse navi per proteggere Livorno ed il littorale pontificio, rispose, aver deliberato di osservar la neutralità molto scrupolosamente; la qual deliberazione convenirsegli e per massima di stato, e per interesse dei popoli.
Il re di Napoli stimolato continuamente dalla regina, e dal debito del sangue verso i reali di Francia, andava affortificandosi con l'armi navali e terrestri; ma non si confidava di scoprirsi apertamente, perchè sapeva che una forte armata francese era pronta a salpare dal porto di Tolone; nè era bastante da se a difendersi dagli assalti di lei, nè appariva alcun vicino soccorso d'Inghilterra, non essendosi ancora il re Giorgio chiarito del tutto, se dovesse continuar nella neutralità. o congiunger le sue armi con quelle del confederati. Perciò se ne giva temporeggiando con gli accidenti. Solo si apparecchiava a poter prorompere con frutto in aperta guerra, quando fosse venuto il tempo, e teneva più che poteva le sue pratiche segrete.
Il gran duca di Toscana, principe savio, stava in non poca apprensione pei traffichi di Livorno; però schivava con molta gelosia di dar occasione di tirare a se la tempesta, che già desolava i paesi lontani, e minacciava i vicini.
Il papa non poteva tollerare pazientemente le novità di Francia in materia religiosa. Ma l'assemblea constituente astutamente procedendo ed andando a versi alla natura di lui alta e generosa, protestava volersene star sempre unita col sommo pontefice, come capo della chiesa cattolica, in quanto spetta alle materie spirituali. Chiamavanlo padre comune, lo salutavano vicario visibile di Dio in terra. Queste lusinghe venute da un'assemblea di cui parlava, e per cui temeva tutto il mondo, avevano molta efficacia sulla mente del pontefice, e già si lasciava mitigare. Ma succedute all'assemblea constituente, la quale benchè proceduta più oltre che non si conveniva, aveva non di meno mostrato qualche temperanza, l'assemblea legislativa, ed il consesso nazionale, queste disordinatamente usando la potestà loro, diedero senza freno in ogni sorte di enormità. Pio VI risentitosi di nuovo gravissimamente fulminò interdetti contro gli autori delle innovazioni, e condannò sdegnosamente le dottrine dei novatori circa le materie religiose. Allora fu opportunamente tentato dall'imperatore d'Allemagna, e dai principi d'Italia, che seguitavano le sue parti. Nè fu vana l'opera loro; perchè il pontefice parendogli, che alla verità impugnata della religione, alla necessità contraddetta delle discipline, ed alla dignità offesa della sedia apostolica fosse congiunta la sicurezza dei principi, e la protezione degli afflitti, ministerio vero e prediletto del successore di Cristo, prestò orecchie alle nuove insinuazioni, ed entrò volentieri nella lega offensiva contro la Francia.
Ma siccome questa era una guerra, non solamente di armi, ma ancora d'opinioni, così si pensò a Roma ad un rimedio singolare per fermar in suo favore quelle, che si erano tanto dilatate, e che minacciavano sì grave ruina ai principi; conciossiachè temendosi di qualche sbocco di Francesi in Italia, fu creduto utile il preoccupare il passo, con fare che la religione santificasse certi principj politici, acciocchè non facessero più forza contro di lei; e al tempo stesso, il che era più importante, si pruovasse, che ella era il mezzo più efficace, anzi il solo che fosse abile a prevenir gli abusi, che sogliono spingere i popoli a trascorrere contro i principi. Così, ammessa e conciliata la radice politica con la religione, si toglieva, speravano, agli avversari quell'arma tanto potente delle opinioni, che allora più che nei tempi passati erano prevalse, e si confermava vieppiù l'imperio della religione. Adunque, ed a questo fine si diede opera, che uno Spedalieri, uomo molto dotto e di non mediocre ingegno, stampasse nel 1791 in Assisi un libro intitolato, I diritti dell'uomo. Questo libro fu dedicato al cardinale Fabbrizio Ruffo, allora tesoriere generale della camera apostolica, e Pio sesto ne nominò l'autore beneficiato di s. Pietro. Afferma in questa sua opera lo Spedalieri, che la società umana, ossia il patto che unisce gli uomini nello stato civile, è formato direttamente, e immediatamente dagli uomini stessi, che è tutto loro, che Dio non vi ha parte con volontà particolare diretta ed immediata, ma soltanto come primo ente e primo movente, cioè a dire che il patto sociale viene da Dio come vengono da lui tutti gli effetti naturali delle cause seconde. Afferma ancora, che il governo dispotico non è governo legittimo, ma abuso di governo, e che la nazione, che ha formato il patto sociale, è in diritto di dichiarare decaduto il sovrano, se questi, invece di eseguire le condizioni sotto le quali gli è stata affidata la sovranità, le viola tirannicamente. Quindi l'autore spiega i caratteri, per cui si viene a conoscere la tirannide, e che adducono il caso della decadenza. Queste sue proposizioni corrobora con l'autorità di San Tommaso, il quale nel suo opuscolo latino intitolato: De regimine principum ad regem Cypri, ne dimostra la verità. Finalmente lo Spedalieri pruova che la religione cristiana è la più sicura custode del patto sociale, e dei diritti dell'uomo in società, e che anzi ella è l'unica capace di produrre un tanto effetto. Rimedio non senza prudenza era questo, ma non fu usato universalmente; imperciocchè dalla dimostrazione in fuori, che se ne fece in Roma, nissun altro segno sorse in Italia, che i principi il volessero accettare: appresso a loro un principio politico contrario prevalse, la religione restò sola, e le cose rovinarono.
La repubblica di Genova fu poco tentata dagli alleati o per disegni che si facevano sopra di lei, o perchè la credevano troppo dipendente, o troppo vicina della Francia. Dimostrossi neutrale con un gran benefizio dei sudditi, che tutt'intenti al commercio di mare con la Francia navigavano sicuramente nelle acque della riviera di ponente.
Così erano in Italia nel corso del millesettecentonovantadue timori universali; armi potenti ed aperte con un'accesa voglia di combattere in Piemonte; preparamenti occulti in Napoli; desiderio di neutralità in Toscana; armi poche, ed animo guerriero in Roma; neutralità dichiarata nelle due repubbliche. Quest'erano le disposizioni dei governi; ma varj si dimostravano gli umori dei popoli. In Piemonte per la vicinanza le nuove dottrine si erano introdotte, e quantunque non pochi per le enormezze di Francia si fossero ritirati, alcuni ancora vi perseveravano. In Milano le novità avevano posto radice, ma molto rimessamente siccome in terreno molle e dilettoso. In Venezia per l'indole molto ingentilita dei popoli gli atroci fatti avevano destato uno sdegno grandissimo, e poco vi si temevano gli effetti dell'esempio, massime con quel tribunale degl'inquisitori di stato, quantunque fosse divenuto più terribile di nome che di fatto. Gli Schiavoni ancora servivano di scudo, siccome gente aliena dalle nuovi opinioni, e fedelissima alla repubblica. In Napoli covava gran fuoco sotto poca cenere, perchè le opinioni nuove vi si erano molto distese, ed il cielo vi fa gli uomini eccessivi. In Roma fra preti, che intendevano alle faccende ecclesiastiche, ed un numero esorbitante di servitori, che a tutt'altro pensavano, che a quello che gli altri temevano, si poteva vivere a sicurtà. In Toscana, provincia dove sono i cervelli sottili, e gli animi ingentiliti, poco si stimavano i nuovi aforismi, e la felicità del vivere vi faceva odiar le mutazioni. In Genova poi erano molti e fortemente risentiti gli umori; ma siccome vi si lasciavano sfogare, poco erano da temersi, ed i rivolgimenti non fanno per chi vive sul commercio.
La Francia intanto venuta in preda a uomini senza freno e senza consiglio, vedendo la piena che le veniva addosso, volle accoppiare alle armi le lusinghevoli promesse, e le disordinate opinioni. Però i suoi agenti sì pubblici che segreti riempivano l'Italia della fedeltà del governo loro, e delle beatitudini della libertà. Affermavano, non voler la Francia ingerirsi nei governi altrui; voler esser fedele coi fedeli, rispettar chi rispettava. Quest'erano parole; ma i fatti avevano altro suono; imperciocchè e cercavano di stillare le nuove massime nell'animo dei sudditi con rigiri segreti, mostravano loro il modo di unirsi, loro promettevano ajuti di consiglio, di denaro, e di potenza, e tentando ogni modo ed ogni via, si sforzavano di scemar la forza dei governi con torre loro il fondamento della fedeltà dei sudditi.
Per meglio dichiarare il secolo, sarà mestiero raccontare ciò che allegavano le due contrarie parti; parrà certamente ch'io dica cose enormi, ma se ne fecero delle più enormi ancora. Dicevano adunque i novatori smoderati apertamente, ed a tutti che lo volevano udire, che i re son tutti tiranni, e bisognare uccidergli; i nobili satelliti dei tiranni; i nobili appoggiare i tiranni con l'armi, i preti con le opinioni; il popolo esser sovrano; da lui derivar ogni potere; il popolo esser pupillo, nè poter mai perdere i suoi diritti nè per tempo nè per usurpazione; il ribellarsi esser dovere, quando son lesi da chi governa i diritti del popolo; abbominevole, assurda e ridicola cosa esser la realtà; solo governo legittimo esser la repubblica; nè tutte le repubbliche esser legittime, ma solo le democratiche; l'aristocrazìa mera peggiore della realtà; l'oligarchìa un male orrendo; sola, e vera fedeltà esser quella verso il popolo; la fedeltà verso i re e verso gli aristocrati esser tradimento; perciò tradire i re, tradire gli aristocrati essere non solo lecito, ma debito; quest'esser le massime eterne dettate dalle natura e da Dio; il Vangelo esser democratico; e qui aggiungevano cose, che quantunque siamo disposti a favellar alla libera, non osiamo per riverenza alla santità replicare; nascere una era novella per l'umana generazione, e compiersi le predizioni delle scritture; sorgere coi diritti la giustizia, con la giustizia la pace, con la pace la felicità; abbastanza, e pur troppo essersi fatto pruova delle usurpazioni, ora doversi pruovare la libertà; abbastanza, e pur troppo essersi pruovati i privilegi, ora doversi pruovare l'equalità; la libertà elevar gli animi, l'equalità consolargli; essere finalmente giunto il tempo, in cui il povero avrà soccorso senza scherno, l'oppresso riparo senza prezzo, ed in cui la società più farà per chi meno puote; poichè negli antichi governi il potere era tutto volto a favor di chi può contro chi non può, vero ed unico fine di ogni buon governo; avere il potere e la legge, esser troppo, aver nemmen la legge esser troppo poco; aver tutti una legge uguale esser giusto; bastar bene, ed esser anche di soverchio, che i ricchi ed i grandi abbiano il potere che danno le ricchezze e le dipendenze, senza che abbiano quello che danno i privilegj; così nelle nuove forme torsene a chi ha troppo, e darsene a chi ne manca, santo e dolce compenso. Sorgessero adunque, sclamavano, giacchè sorgevano i tiranni, sorgessero i popoli a far quello che più piace a Dio, quello che stat'era da Dio eternamente prescritto: sorgessero, abbattessero, conculcassero i tiranni, fondassero i governi popolari, fondassero le repubbliche, e stabilissero un fortunato e dolce vivere. A così alta impresa spirar l'aure favorevoli; la tirannide essere stata spenta in Francia, parte tanto principale d'Europa; una grande, valorosa e potente nazione esser tutta sorta in piè per ajutare chiunque voglia gettar dal collo il grave giogo; abbastanza essersi sofferto, abbastanza tollerato, ora splendere più benigne stelle; pruovassero, che i più numerosi sono i più forti, che gli oppressi non son vili; trasportassero il governo del mondo dal vizio potente alla virtù infelice.
Dall'altro canto nè maggior moderazione d'animi si osservava, nè maggior modestia di parole. Dove sono, dicevano, questi giacobini (che così gli chiamavano da una setta furibonda nata in Parigi), che ora si fanno a voler riformare il mondo? Bel principio al governo loro il metter la mano nella roba e nella vita altrui, e portar le teste lacere in processione! Imprigionar gli onesti, e scannar gl'imprigionati! parlar di aristocrazìa! ma se l'aristocrazìa fa male, fallo a pochi, la democrazìa a tutti; chi fa scudo ai re, unico, e salutar temperamento in una nazione grande, se non l'aristocrazìa, massime quando i re son diventati bersaglio a popoli indemoniati? che virtù! I ladri in onore, le meretrici in trionfo! Se sono i popolari virtuosi per ignoranza, sono i magnati per educazione, e la virtù rozza diventa ferocia, se non la tempera la gentilezza. Se i magnati son freno alle voglie assolute del principe, ed alle voglie disordinate della plebe, sono ancora esempio ad infondere nei popoli costumi miti, e gentili; non essere nidi di tiranni i castelli, bensì specchi di civiltà; ciò che fu, non esser quello che è, e nemmanco i popoli essere stati angeli; doversi in questo, e quanto al passato dare e chiedere perdonanza. E che valse ai nobili l'aver dato alla patria i privilegi loro, non conquistati per forza ma conceduti per ricompensa, se, spenti i privilegi, loro si tolsero le proprietà, poi la libertà, poi la vita? E quando finiranno gli esilj, le persecuzioni, e le carneficine? Della realtà che dirassi? se non se questa esser modo di governo connaturale all'uomo, poichè là dove sono uniti uomini in società, là sempre nasce come di necessità la realtà, se non di nome, almen di fatto, ma le più volte e di nome e di fatto; non vedersi forse dove i più governano, reggere un solo? e non valer forse meglio la realtà vera, che la realtà velata? non esser quella sempre più temperata o dalle leggi, o dalle consuetudini, o dalla necessità di comparire, se non buono, almeno giusto? all'incontro esser questa più sospettosa, perchè senza appoggio, più crudele perchè più sospettosa, più arbitraria perchè senza freno. Nascere la realtà dal desiderio innato in tutti di dominare; poichè questo inducendo l'anarchìa, morte della società, fa che si trasporta il dominio da tutti prima in pochi, poi per la medesima ragione da pochi in un solo; e beate le nazioni che trovano la realtà bell'e fatta, senza dover passare per l'anarchìa per farsela! Il popolo sovrano! Certo sì per ammazzar prima i migliori uomini, poi se stesso! Error scelerato essere il voler ridurre un teorema speculativo in pratica; che anche i matti furiosi son padroni di muoversi, e pure si metton loro le catene addosso: con le astrattezze non governarsi gli uomini, ma con i rimedj contro le passioni, e mal rimedio essere lo sbrigliarle. Doversi perciò questi regoli plebei spegnere del tutto ad eterno esempio di una gran malvagità punita; e siccome ne furono scrollate le fondamenta stesse della società, così doversi questa ritirare non solo là dond'era partita, ma più verso un governo forte e stretto. A questo opportuni stromenti essere i nobili ed i religiosi, i primi perchè dan la forza, i secondi perchè danno la persuasione, ed a tutti questi preporre un re forte e risoluto. Nè ciò bastare; spenti gli uomini infami, doversi anche spegnere le dottrine sfrenate; perchè, se bisogna castigar la generazione presente, e' bisogna sanar le future; una moderata ignoranza esser migliore d'un insolente sapere: insomma punir i traditori, premiar i fedeli, riordinar in tutto e per sempre il vivere sociale. Per questo muoversi l'Europa, per questo aguzzar l'armi; nè tanto moto essere per palliar solamente un male immenso, ma per estirparlo; rimanere ancora in Europa sufficienti residui di realtà e di aristocrazìa per risarcir l'edifizio della società rovinata, se prudentemente e gagliardamente si rimettessero insieme; questo voler fare i re confederati, a questo mirare le speranze di tutti i buoni, a questo offerirsi i nobili, a questo persuadere i religiosi; che se tanta aspettazione, se così gran consenso, se una sant'ira mossa da crudeli misfatti fossero indarno, dover cader l'Europa in una inudita barbarie.