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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I
S'aggiunsero le dogane interne soppresse, nuove strade aperte, canali scavati, porti, e lazzaretti o nuovi, o ristorati, fatto sicuro a Livorno agli esteri l'esercizio della religione, aboliti i corpi delle arti e le matricole, surrogati agl'impedimenti premii, facilità, ed esenzioni, massime in beneficio delle arti della seteria e del lanificio, parti essenzialissime del commercio di Toscana. La libertà delle tratte, mediante un modico dazio rispetto alle sete, tanto operò, che se il provento loro in Toscana montò nel 1780 solamente a libbre 163,178, montò nel 1789 a ben 300,000.
Ma per parlar di nuovo del governo delle terre, non solo Leopoldo lo migliorò d'assai, migliorando la condizione dei coloni, ma rendè ancora coltivabili quelle che per infelicità di suolo si trovavano incolte. Così la val di Chiana, così quella di Nievole, ricche ed ubertose terre; così la gran parte il capitanato di Pietrasanta, e le frontiere del littorale livornese e pisano, usando secondo i luoghi appositamente tagli, colmate, argini, canali, furono per opera sua liberate dall'acque, ridotte a sanità, e restituite alla coltivazione. Ma opera di molto maggior momento, e di quasi insuperabile difficoltà, fu il prosciugamento delle maremme sanesi a tal termine condotto, che si aveva speranza di totale perfezione. Sono le maremme sanesi un vastissimo padule, che dai confini della provincia di Pisa fino a quelli dello stato ecclesiastico si distende, lungo il mare, lo spazio di circa settanta miglia, e per larghezza dentro le terre da cinque o sei, fino a quindici o diciotto. La pianura di Grosseto è la parte più considerabile di queste maremme. Sono in questi luoghi i terreni non sommersi tanto fecondi, quanto l'aria vi è infame, e pestilenziale.
Sotto Ferdinando primo de' Medici erasi già in parte conseguito l'intento, e parecchi paduli a stato coltivabile ridotti. Trascurate poi le opere da' suoi successori, ritornarono le terre e l'aria a peggior condizione di prima. Ma non così tosto fu assunto Leopoldo, che pensò alle maremme. Mandovvi il padre Ximenes, mandovvi Ferroni e Fantoni, matematici di chiaro nome, e dell'idraulica intendentissimi. Già la pianura di Grosseto, già il lago, o per meglio dire, la palude di Castiglione, ambedue parti principalissime delle maremme, eransi ridotte a stato tollerabile. Speravasi meglio, anzi il finale intento: usavansi le colmate per le acque dell'Ombrone, e della Bruna, introdotte ai tempi delle torbe; usavansi canali, e cateratte in più opportuni siti trasportate.
Oltre a ciò Leopoldo, mosso dal pensiero che le popolazioni scarse fanno l'aria insalubre, le abbondanti sana, allettò con premii ed esenzioni tanto i paesani, quanto i forestieri, principalmente gli abitatori dell'agro romano, a fermar la sede loro nella maremma. Pagassesi dall'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai fondatori; dessersi terre o gratuitamente, od a basso prezzo, od a carico di livelli, od in enfiteusi; dessesi anco denaro a presto, e sicuro asilo a chi vi si venisse a ricoverare. Per questo e crebbe la popolazione, ed i terreni si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono poi le opere per le difficoltà dei tempi. Pure rimangono, e forse ancora lungo tempo rimarranno nelle maremme sanesi i vestigi della generosità di Leopoldo.
Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo principe circa il debito dello stato. Più di tre mila luoghi di monte furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina sua moglie, ed altri constituenti parte del patrimonio suo privato. In tal modo si spense in gran parte il debito, che tanto gravava l'erario: così mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello stato montava continuamente, non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana per opera di Leopoldo il debito medesimo si estingueva per fondarvi un governo dolce, quieto per se, sicuro pei vicini.
Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento; perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto, conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizi ed ospedali: gli studi di Pisa e di Siena meglio s'ordinavano: nuovi palazzi fondavansi, gli antichi s'abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, lo librerìe s'arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un orto botanico si piantava.
Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto era e sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello stato dal 1765 fino al 1789. In questo quasi specchio dell'economia di Toscana vedonsi ed i risparmi fatti, e le imposizioni moderate, ed il denaro convertito in cause pietose di sollievo, o d'ornamento pubblico.
Sonmi io fermato lungo spazio nel parlare della sapienza civile di Leopoldo, perchè a ciò fare m'invitava il grandissimo diletto ch'io ne prendeva, e perchè pur troppo il filo della mia storia guiderammi a favellare di casi di gran lunga da questi dissomiglianti; nè credo, che chi mi leggerà, se fia d'animo benigno, m'accagionerà di essermene andato per le lunghezze, o di essermi dimorato alquanto in questa dolcezza; poichè dolcezze tali son rare per gli storici, in tanta infelicità dell'umana condizione.
Ma è tempo oramai ch'io venga a discorrere delle riforme fatte in Toscana da Leopoldo nell'ecclesiastiche discipline, materia di tanta gravità, e che destò tanto grido e tanta aspettazione d'uomini sì in Italia, che fuori di essa. Gli antichi Toscani più propensi a dar ricchezze ai conventi che alle parrocchie, lasciarono quelli ricchi, queste povere. Le massime larghe dei gesuiti, e la constituzione UNIGENITUS erano state accettate senza opposizione alcuna in Toscana. Ma quando fu assunto al vescovato di Pistoia l'Ippoliti, i libri degli scrittori di Porto-Reale incominciarono ad andar per le mani degli ecclesiastici. Arnauld, Nicole, Dughet, Gourlin, Quesnel, diventarono i libri favoriti dei preti. Questa inclinazione verso la scuola di Porto-Reale molto s'accrebbe, quando Scipion Ricci successe all'Ippoliti nella sede vescovile di Pistoia. Se ne compiacque Leopoldo, e convocò nel 1787 un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquanta sette punti, tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina. Molti s'accordarono, altri si modificarono, alcuni si serbarono a tempi migliori.
Il principe, avuto il parere di prelati venerabili per dottrina e per integrità di costumi, procedè più francamente alle riforme. Stabilì, le parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i redditi loro, veruna tassa più non pagassero ai vescovi forestieri, annullassersi le pensioni di qualunque sorte sopra i benefizi curati, permutassesi la destinazione dei fondi vincolati ad usi religiosi, e indifferenti, o poco utili, ed il provento di tali capitali in aumento delle scarse congrue dei parochi più bisognosi s'impiegasse; con questo, ed in compenso di tali concessioni, i rettori delle cure dall'esazione delle decime, e da altri emolumenti di stola desistessero; i parochi alla residenza obbligati fossero; niuno più di un benefizio goder potesse, ancorchè semplice, massimamente se residenziale fosse; tutti i sacerdoti che benefizio residenziale avessero, fossero alla chiesa, ov'era fondato, incardinati, e tutti i sacerdoti semplici, alla chiesa parrocchiale, dove abitassero, e ciò con dipendenza dal paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo uffizio; i benefizi tanto di collazione ecclesiastica, quanto di nomina regia, a chi servito avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed unicamente si conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco dipendessero, e ad aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero; alla sussistenza degli ecclesiastici o poveri, od infirmi provvedessesi; i romiti, salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le compagnie, congregazioni, e confraternite sopprimessersi; a tutte sostituissersi le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii, refettorii, e stanze delle compagnie soppresse ai parochi gratuitamente si consegnassero; i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito non vestissero prima dei dieciott'anni, non professassero prima dei ventiquattro; le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei trenta professassero; il tribunal del sant'officio s'annullasse; le censure di Roma, per quanto si risolvono in pene temporali, ed i monitorii di scomunica, senza il regio consenso non s'eseguissero, nè pubblicarsi, nè intimarsi, nè attendersi nel foro esterno potessero; s'intendesse abolito il privilegio degli ecclesiastici di tirar i laici al foro loro, e nelle cause criminali in tutto e per tutto ai laici parificati fossero; le curie ecclesiastiche e delle cause meramente spirituali conoscessero, e pene puramente spirituali definissero; gli ordinarii ogni due anni il sinodo diocesano, per conservare la purità della dottrina e la santità della disciplina, convocassero.
Queste deliberazioni del principe toscano, ancorchè molestissime alla corte di Roma, non toccavano però la sostanza stessa di quell'autorità pontificia, che già da più secoli o tacitamente consentita, o espressamente riconosciuta dalla chiesa pretendono i papi aver piena ed intiera. Tengono i curialisti romani quest'opinione, che il papa sia solo vicario, e rappresentante di Cristo, e suo plenipotenziario; e che tutti gli altri vescovi del mondo siano vicari, non di Cristo, ma del pontefice romano, cosicchè nella chiesa non vi sia veramente che un vescovo solo universale, che riceva da Cristo tutto il deposito dell'autorità ecclesiastica da comunicarsi da lui con misura a' suoi subalterni. Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipion Ricci, vescovo di Pistoia, che intento sempre a voler ritirare il governo della chiesa verso i suoi principii, aveva già opinato nell'assemblea dei vescovi di Toscana, acciò si ampliassero le facoltà, non che dei vescovi, dei parochi, volendo, a foggia dell'antica comunanza dei Cristiani, che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa nei sinodi diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare, od impedire, e poter sempre, e dovere un vescovo nei suoi dritti originari ritornare, quando l'esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni fecero assai mal suono alle orecchie romane, per guisa, che Pio VI come erronee, ed anche come scismatiche, alcuni anni dopo, le condannò. Aggiunse il Ricci alcune altre dottrine, che parvero e temerarie ed alla santa sede ingiuriose; essere una favola pelagiana il limbo dei fanciulli, un solo altare dover essere in chiesa secondo il costume antico; la liturgia ed esporsi in lingua volgare, e ad alta voce recitarsi; il tesoro dell'indulgenze esser trovato scolastico, chimerica invenzione l'averlo voluto applicar ai defunti; la convocazione del concilio nazionale esser una delle vie canoniche per terminar le controversie circa la fede ed i costumi. In fine sommamente dispiacque a Roma quella proposizione del sinodo pistoiese, per la quale i quattro articoli statuiti dal clero gallicano nell'assemblea del 1682 si approvarono, e questa particolarmente Pio Sesto con una sua bolla tassò, e dannò come temeraria, scandalosa, ed alla santa sede ingiuriosa.
Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia, massimamente quando furono condannate da Roma. Scritti senza numero vi si pubblicarono da persone dottissime nella storia ecclesiastica, alcuni in favor di Roma, molti in favor di Pistoia, e fra Pistoia e Roma pendeva sospesa la lite. Allegavasi dai papisti, incominciare a por piede in Italia l'eresie di Lutero; dai difensori del Ricci, un salutar freno incominciarsi a porre alla prepotenza di Roma. Gli ultimi, tra perchè pretendevano ai discorsi loro parole santissime di semplicità e di parsimonia, e perchè inclinavano a favore dei più, e perchè finalmente era divenuta intollerabile a tutti la potenza eccessiva di Roma, molto s'avvantaggiavano sugli avversari loro, ed andavano ogni dì maggior favore acquistando.
Queste ferite tanto più addentro andavano a penetrare nel cuore del pontefice, quanto più nel regno stesso di Napoli le medesime, o poco dissomiglianti dottrine si professavano. Pareva a tutti, ed ai principi massimamente, che le dottrine, che in Toscana prevalevano, non solo la disciplina trascorsa ristorassero, ma ancora la potenza temporale alla libertà, ed alla debita indipendenza dai romani pontefici restituissero. Perlochè con piacere si abbracciavano, con celerità si propagavano, con calore si difendevano. Ma nel regno delle due Sicilie erano alcuni particolari motivi, per cui le medesime dottrine, che suonavano parole tanto gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo più volonterosamente ed accettate e difese. Prima però di favellare di queste controversie, fia d'uopo raccontare qual fosse lo stato del regno, e quali le opinioni e le affezioni che vi predominavano, rincrescendoci già fin d'ora, che principii che spiravano umanità e beneficenza, siano stati poi seguitati, per la malvagità dei tempi, dalle più orribili, e lagrimevoli tragedie, di cui ci abbiano gli storici tramandato la memoria. Tanto, o l'ardor del cielo, o l'atrocità delle ingiurie, o il desiderio immoderato della vendetta, o tutte queste cagioni unite insieme fanno trascorrere sempre fino agli estremi le cose in quella parte d'Italia.
Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750, cedè il regno delle due Sicilie a Ferdinando Quarto, suo figliuolo secondogenito, constituito allora nella tenera età di nove anni. Creata prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza del nuovo re il principe di S. Nicandro. Questi privo di ogni sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia, ed altri cotali esercizi di corpo. Di questi s'invaghì il giovane Ferdinando, che ne prese poscia in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile, ed al governo degli stati. Pure amava chi sapeva, e di consigliarsi con loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni, che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali, ed avverso alle immunità ecclesiastiche, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con dolcezza. Speravasi qualche moderazione alla tirannide feudale, che in nissuna parte d'Italia erasi conservata più gravosa, che in quel regno, principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano, questo tiranneggiavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca, dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli oli, delle sete, e delle lane; per loro ancora i dazi d'entrata nelle terre, i pedaggi, le gabelle, le decime, ed i servigi feudatarii. Insomma erano i popoli vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità, tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i popoli.
Quanto agli stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di Ferdinando, donna d'animo imperioso ed aspro. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il marchese della Sambuca, poi Acton, uomini di natura consenziente a quella della regina; prevalsero allora le parti d'Austria.
Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non saprei dire, se sia maggiore la forza dell'ingegno, o l'amore dell'umanità. Erano con incredibile avidità letti, e con grandissime lodi celebrati da tutti. Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo stato ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo, non ancora insospettito dalla rivoluzione di Francia.
Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme, perchè più erano necessarie, e maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè le austriache erano del tutto dismesse. Quindi niun diritto in palese, nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni imperfettissimi.
Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza; desideravasi qualche saggio pratico dell'utilità loro. Aveva il re, mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto sono celebrate le pianure del Parmigiano, e del Lodigiano. Piacquergli opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta. La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando dicendo, che, poichè era stato il fondatore di S. Leucio, fossene anche il legislatore; l'ottennero facilmente. Statuì il re delle leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno stato indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi di famiglia, ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme, e regole speciali, ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangieri. Con queste leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia, dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri, che gli si volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno, che quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi, sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse.
Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più coloro che gliene porgevano, erano appunto i più zelanti difensori della autorità e dignità sua contro la corte di Roma. Già s'era Tanucci dimostrato molto operativo in questo negozio delle controversie romane. Già per consiglio suo erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause, nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato ogni appello a Roma. Pareva in fatti abuso enorme, che un principe forestiero esercitasse giurisdizione, e rendesse giustizia negli stati di un altro principe. Era Tanucci stato anche autore, che la corona di Napoli, e non la santa sede nelle vacanze dei benefizi nominasse i vescovi, gli abbati, e gli altri beneficiati, che la presentazione della chinea il giorno di S. Pietro in una offerta di elemosina si cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità, che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente si era diminuito il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù. Parlossi inoltre di rendere i frati indipendenti dai generali loro residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della chiesa per allestir un navilio sufficiente di vascelli da guerra.
Tutte queste novità non si potevano mandar ad esecuzione senza grandissime querele dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Ma sorsero nel regno molti scrittori a difesa della libertà, e della indipendenza della corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi; si accostò a loro l'arcivescovo di Taranto. Ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro, che desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo, e ad un tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando grandemente sdegnato contro Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e gli vedeva, e gli udiva più volentieri. S'aggiunse, che Carlo di Marco, uno dei ministri del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta alle controversie con Roma.
Tale era lo stato del regno di Napoli, in cui si vede che i medesimi tentativi si facevano, che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore a cagione delle controversie politiche con Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi si era anche incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se n'intendeva e ripugnava; la regina, che se n'intendeva, ripugnava ancor essa; ed il re occupato ne' suoi geniali diporti, amava meglio che altri facesse, che far da se. Da ciò nasceva, che gli umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente.
La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento di tre camere dette Bracci, ch'erano gli ordini dello stato. Una chiamavasi Braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori, che avevano in proprietà loro popolazioni, almeno di trecento fuochi. L'altra intitolavasi Braccio ecclesiastico; entravano in questo tre arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abati, ai quali il re conceduto avesse abbazie. La terza aveva nome Camera demaniale; era composta dai rappresentanti di quelle città che non appartenevano ai baroni, e che demaniali si chiamavano; cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte di città avea la Sicilia, baronali, e libere. Le prime erano quelle che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali. Accadeva spesso, che un solo barone avesse più voti in parlamento, per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima. Capo del Braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo, dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno; poi fu fatto quadriennale. Prima di Carlo V faceva le leggi; dopo venne ridotto a concedere i donativi.
Da questo si vede, che il nervo principale del parlamento siciliano consisteva nei baroni, perchè più ricchi erano, e più numerosi. Ma ben maggior era la potenza loro nelle terre, a cagione dei privilegi feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigi feudatarii vi erano ancora gravi. Del resto le opinioni del secolo poco avevano penetrato in quell'isola; ma quello che non dava l'opinione, il potevano dare facilmente gli ordini dello stato.
Questa che abbiamo raccontata, era la condizione del regno delle due Sicilie verso l'ottantanove; ma poco diversa appariva quella del ducato di Parma e Piacenza, dove come a Napoli, regnava la famiglia dei Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto il campo ad investigazioni a diminuzione dell'autorità romana. Quando l'infante D. Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del francese Dutillot, il quale nato di poveri parenti in Baiona, era salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto mandalo Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma, temendosi che in quella nuova possessione del ducato, ella volesse dare qualche sturbo in virtù dei diritti di superiorità sovrana, che pretendeva in quello stato. Per verità se grande fu la fede che la Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua destrezza, e la prudenza. Chiamò a se i più famosi ingegni d'Italia, tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere, di notabile eloquenza, ed amatore delle libertà ecclesiastiche, benchè, fatto vescovo, abbia poi mutato, non dirò opinione, ma discorso; ma tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i costumi in quella bella parte d'Italia, e tanto vi prosperarono le buone arti, che il regno di D. Filippo ebbe fama del secol d'oro di Parma. Certo, città nè più colta, nè più dotta di Parma non era a quei tempi, nè in Italia, nè forse anche altrove. Crearonsi, per consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti ordini nell'università degli studi, un'accademia di belle arti, una magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni insegnamenti, ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi, oltre Paciaudi, e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac, Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo stesso, ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate, per edifizi, per strade, per pubblici passeggi. Così passò il regno di D. Filippo assai felicemente sotto la moderazione di Dutillot.