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La battaglia di Benvenuto
La battaglia di Benvenuto

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La battaglia di Benvenuto

Язык: Итальянский
Год издания: 2016
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Gismonda si rimase dal piangere, e chiamando su i labbri il sorriso, comunque una lagrima le tremolasse tuttavia tra le lunghe palpebre, corrispose allo abbracciamento della nobile Yole, e in atto soave le disse:

«Voi non mi affliggete, nè potete affliggere nessuno, voi solo mia gioia, unica e diletta amica mia, quando anche la sorte avesse posto tra noi lo spazio che passa tra vassallo e il barone, le anime nostre avrebbero sentito lo scambievole desiderio. Comunque pensiate di me, io vi amo, Yole, vi amo, quanto si può amare cosa terrena dopo Dio, e i suoi Santi. Ma per quanto amore portate alla gran Donna del cielo, calmate quel vostro disperato dolore… Oh! se sapeste quale affanno mi travaglia qui dentro» ed accennava il seno «nel vedere a poco a poco inaridire la fonte della vostra vita, il fiore della vostra giovanezza appassire, e le floride guancie impallidire, e quei begli occhi oscurarsi… certo, benigna come siete, vi provereste a non apportarmi tanto sconforto. Oh! il vostro dolore, concedete che ve lo dica Gismonda, non muove cosa che si tema, bensì cosa da lungo tempo avvenuta. Il Conte di Provenza non si partiva ancora da Marsilia; nè egli parmi persona da temersi poi tanto, sebbene il Vaticano lo benedica, e lo armi contro di noi: e dove fosse da temersi, il pericolo non successo vuole fermezza di cuore, non pianto, che questo torna inutile prima che la sventura accada; dopo, ridicolo e codardo. La figlia del Re Manfredi non si sente tale… Da più alta cagione che questa non è, traggono origine cotesti furori: una cosa che ormai non istà più in potere della ragione e del tempo,… un sentimento profondo invano represso, forse…»

«Gismonda!» riprese Yole, fattasi pel volto e pel seno tutta vermiglia, «si danno arcani che l’amico non può dire all’amico; che ricercarli in ogni nome è indiscretezza e crudeltà, nei Sovrani delitto. Hanno i Regnanti segreti che non possono svelare a persona, perchè a noi più che al rimanente degli uomini dette il cielo un senso squisito di dignità. Al Conte Ruggiero e alla sua nobile consorte, assediati sul monte Etna, rimase un solo mantello reale; essi non pertanto non mostrarono la loro nudità, ma ora l’uno, ora l’altro si fecero vedere in pubblico sempre vestiti del manto che non può onestamente tralasciare l’altezza del sangue. – Se il mio segreto fosse stato da svelarsi, a te più che altrui avrei voluto manifestarlo; ma da che mi piacque non dirtelo, guardati bene dal cercare di saperlo. Ti basti questo, che dove la mia destra lo rivelasse alla mia sinistra, io vorrei subito mozzarla.»

La damigella le stette dinanzi sbigottita, come quella che non aveva mai inteso tanto acerbo rimprovero. Yole gravemente aggiungeva:

«Porgimi il velo, Gismonda; sento il bisogno di aere più puro. – Voi tutte restate, Gismonda sola mi accompagni nel giardino.»

Gismonda corse ad eseguire il comando; ma confusa, mal sapendo che si facesse, tolse quel velo stesso che assunse Yole allorchè si seppe in corte la morte di Corrado, e glielo porse senza sollevare gli sguardi.

Lo vide Yole, e mesta sorrise: poi premendo leggermente il braccio a Gismonda: «Accetto l’augurio» le disse «che mi viene dalla eletta del cuore.» – E tolto il velo se lo avvolge alla persona, e s’incammina ai giardini reali.

Gismonda, sollevati gli occhi, si accorge dell’errore, prorompe in un grido sommesso, e segue la sua donna asciugandosi col dosso delle mani le pupille lacrimose.

Potevano avere di appena venti passi trapassata la porta, allorchè le damigelle, gittando via quella mentita sembianza di afflizione, si mossero festose qua e là per la sala, alternando mille lieti ragionamenti. Adelasia di Ansalone, damigella di forme leggiadre, e di cuore vano. sopponendo al suo braccio quello d’Isolda Cavella, sorridendo le disse: «In verità, Isolda, io non ho mai in mia vita pianto siccome oggi; neppure allorchè la mia zia Contessa Serena, di gloriosa memoria, nelle lunghe sere d’inverno, mi poneva nella sala del castello di Campobasso presso il focolare dei suoi maggiori.»

«Oh! per me poi» soggiunse Isolda «sento che il pianto ristora; non l’onoriamo noi come segno di cuore tenero? Quello che adorna l’anima, deve ornare anche il corpo.» E così dicendo si sciolse dal braccio di Adelasia, e presa una tersissima lastra di argento si pose tutta leziosa a mirarvi dentro la propria immagine.

«Domine, falla trista!» guardandola dietro, e scuotendo il capo disse Matelda d’Arena antica damigella. «Da che il più scioperato Menestrello che mai venisse in corte le cantava i suoi occhi lagrimosi non avere paragone in cielo o in terra, io credo che per cavarne una lagrima gli esporrebbe, non che ad altro, al fumo di zolfo.»

«E dovete sapere,» soggiunse spedita spedita una magra, lunga, di brutte sembianze, chiamata Andolina Benincasa, «e dovete sapere, che in que’ tempi Isolda piangeva, quando anche la prendeva vaghezza di ridere, e la cagione la sa il medico saracino Sidi Abdallah che la guarì dalla fistola.»

«Andolina, paionvi cose queste da tenersi lungamente celate ad amiche quali noi siamo? Per poco sta ch’io non mi corrucci con voi,» riprese sorridendo Adelasia; «ma di grazia rammentate, Matelda, la canzone del Menestrello: il caso merita bene di sapersi intero.»

«Non so,» rispose Matelda «perchè non soglio faticarmi la mente col ritenere tanto tristi versi quanto furono quelli del Menestrello; pure proviamo.» E qui poneva l’indice alla fronte, e chinava la testa in atto di riunire tutta l’anima in una sola facoltà, finalmente dopo aver cominciato, desistito, e ripreso da cinque e più volte: «Ecco!» soggiunse ella «diceva così:

«Brillano silenziose in ciel le stelle

Di benigno splendor,

«Ma le tue luci ancor

Brillan più belle;

E se suffuse di pietose stille

Rimira il Trovator

Le gaie del tuo amor

Belle pupille,

Brillin pur luminose in ciel le stelle

Di benigno splendor,

Che le tue luci ancor

Brillan più belle…»

Isolda, che intenta a vagheggiarsi il volto non aveva fin qui posto orecchio a queste parole che si mormoravano a breve distanza da lei, appena ricovrati i sensi dalla vanità che la occupava, udì quegli ultimi versi, e subito dubitò della beffa: onde fattasi presso Matelda con un suo riso di dispetto le domandò: «Madonna, se Dio vi aiuti, poichè per vostra ventura avete udito i Trovatori del secolo passato, vorrestemi dire, la mercè vostra, se valorosi quanto i moderni essi fossero?»

«Tengo per fermo, rispose tutta stizzosa Matelda quantunque per la età non gli abbia potuti udire io, che i moderni Trovatori sieno tanto al di sotto agli antichi nella gaia scienza, quanto le moderne gentildonne sono al di sopra delle antiche in iscortesia.»

«E voi ci offrite prova vivente della differenza, Matelda.» riprendeva Isolda, e stava per aggiungere, allorchè Adelasia, temendo non venissero a brutte parole, troncò quel ragionamento dicendo:

«E la povera Gismonda!» e sospirò. «Davvero che ricava la bella mercede del suo grande affetto!»

«Non andò mai così bene a sposa gioiello, siccome a lei il rimprovero di Yole,» soggiunse Matelda, cui forse fu grato trovare altro soggetto che dilungasse l’attenzione delle circostanti dal proposito dei suoi anni.

«Ella ha voluto regnare sola nel cuore della nostra signora» disse Andolina; «ella ha voluto vincerne tutte per soverchiarci, perchè sebbene in volto modesta, credetemelo, è superba quanto l’Angiolo delle tenebre. Ha scosso l’albero, ora mangi il frutto che n’è caduto.»

«Santa Nimfa! S’ella è superba!» disse Isolda. «lo per me credo la sua superbia uguale alla sua vanità. Se le proponete fare alcuna cosa, ella vi risponde: ne terrò motto a Yole; se la ricercate perchè si affligga, ed ella perchè Yole è afflitta; e Yole sempre, e sempre Yole, ostentando così tenere proposito di lei, siccome di sorella o di amica, anzichè di sovrana o padrona.»

«Il mal vien dalla radice,» rispose Adelasia, «nè posso darmi pace come costei abbia scelta per favorita la nostra signora. Guardimi Dio da sparlare di tale amica quale mi si professa Gismonda; ma per me la reputo la più insipida gentildonna del Regno. Pel sangue poi credo che il nostro valga bene il suo, Matelda.»

«Sant’Agata benedetta! che dite mai, Adelasia? Io ho inteso le mille volte narrare dal Marchese Pier Corrado mio nonno, di buona memoria, la famiglia di Gismonda discendere da linea bastarda della casa normanna, cioè, se non erro, da Clemenzia Contessa di Catanzaro, figlia illegittima del Re Ruggiero; e valga il vero, comunque ella vanti la impresa normanna, voi potrete osservare le fasce rosse e bianche in campo d’oro tramezzate dalla sbarra della bastardigia; ma il nostro, Adelasia, ma il mio, Adelasia… ah! il mio mi scorre purissimo nelle vene quanto quello del Re. I miei antenati di Sicilia hanno trasmesso ai loro nepoti la impresa del monte di argento, e del lion d’oro in campo azzurro, gloriosa, com’essi la riceverono dai loro antenati di Arragona; poichè importa che sappiate, Adelasia, la famiglia Arena derivare dall’Arragona.» Tutto questo discorso velocemente parlava Matelda, alla quale la gran voglia di mordere altrui ed esaltare sè stessa fece obliare, che il Marchese Pier Corrado suo nonno, di buona memoria, era da ben trent’anni defunto, come ne faceva fede il suo fastoso sepolcro nella cattedrale di Palermo.

Ed ecco che queste frivole, abbandonato affatto il soggetto di Gismonda, si lanciarono impetuose a favellare di fasce nere in campo di argento, e di sbarre di argento in campo nero, e di Lioni rampanti, e di Pantere passanti, e scudi, e cimieri, e corone. Matelda poi, siccome quella che sentiva assai addentro nella scienza del Blasone, fece maravigliare le compagne col dare la spiegazione dell’arme Bonaccolta che fa fascia rossa, e testa di porco nera, tenente sul grifo croce rossa in campo di argento.

Appena ebbe finita Matelda la sua dimostrazione, che tutte le compagne le si strinsero attorno, tanto ella piacque, onde narrasse loro qualche bel fatto antico. Madida fece lungamente sembiante di ricusare; alla fine, mostrandosi vinta dalle istanze loro, parlava:

«Ma che credete voi, che io abbia per le vene storie in vece di sangue? Io faccio conto di avervene fino adesso contate ben mille, e la vostra sete cresce a proporzione che vi porgo da bere. Che faro adunque? Ripeter le antiche tornerebbe in vostro fastidio, e mio; narrarne di nuove non mi riesce agevolo, poichè tante ne furono dette da me: pure,» e qui sollevò la persona in atto contegnoso, «pure fidata alla cortesia vostra, mie leggiadre e belle ascoltatrici, non dubiterò pormi in pelago, sicura che la benignanza delle vostre stelle mi dimostrerà il porto dove possa ricovrare la debole navicella del mio ingegno.» Dopo questo proemio, tenuto per un capo di opera di eloquenza, Matelda soprastette alquanto pensosa, e dopo breve ora volgendo gli occhi attorno così prese a favellare:

«E’ dovete sapore, donne mie care, che nei tempi nei quali l’Amira Aureliano regnava su Roma, donde aspramente perseguitava i fedeli di Cristo, un certo Solino Prefetto dei soldati reggeva a suo nome la Sicilia, ed aveva tolto a dimorare nella Conca d’oro, la bella Palermo, sopra tutte le altre città della Isola felicissima e bella. Ora questo Prefetto non diverso dal suo feroce signore, anzi, siccome nei servi suole tuttogiorno accadere, affatto a lui somiglievole, con frequenti rapine, e feroci martirii, affrettò il punto della vendetta di Dio; il quale, quantunque paia venire tardi, piacendo alla sua misericordia dar tempo al peccatore affinchè si ravveda, nondimeno giunge inaspettato, e tremendo. Stavasi dunque certa sera il crudele Solino seduto sur una loggia del suo palazzo a rimirare il sole cadente. Una turba di uomini e di donne gli dimorava attorno cantando, suonando, e a mano a mano copiosamente bevendo preziosissimi vini, che quivi aveva fatto imbandire, allorchè di repente rizzatosi in piedi tutto smorto nel viso, tolto pel braccio un suo paggio che gli stava vicino: – Vedi, Lampridio, gli disse, l’ultimo raggio del sole? Questa sera apparisce sanguigno; che Allah e il suo Profeta ci guardino, ma questo raggio, piuttostochè addio, sembra maledizione… guarda fisso… fisso… egli sparì… egli non ha parlato… ma una voce che non è entrata per gli orecchi ha detto al mio cuore ch›io non vedrò più i raggi del sole. – Mentre quel tristo, compunto dalla coscienza, in questo modo parlava, e susurrava bassamente scellerate preghiere, nel mezzo della città franò con orribile rumore gran parte del terreno, e da quella rovina ecco s›innalza un densissimo e fetidissimo fumo, il quale gradatamente diradandosi lasciò vedere un Mostro che la gente ha poi chiamato il Gran Diavolo di Sicilia, le sembianze del quale furono queste: sei palmi era alto, ed aveva la testa tutta calva, se non che su la nuca un po’ di pelame ispido: dalla fronte gli scappavano due corna, a somiglianza di quelle dei capri ritorte: delle due braccia uno stendeva lunghissimo oltre il ginocchio, l’altro cortissimo sopra il fianco; le mani aveva come orso, la testa larga quanto le spalle, e queste lucide come specchio: la faccia pendeva all’umano, meno che per un solo occhio vedeva, e per una sola narice fiutava: dalla cintola in giù andava coperto, stando seduto sopra un carro di quattro ruote guidato da due fieri lioni davanti, e sospinto da due orsi dietro. Or questo spaventevole animale si mosse pianamente per la città, scintillando dagli occhi faville di fuoco: e tanta ne fu la paura, che molte donne si sconciarono, altre tramortirono, e tutti insieme uomini e donne rifuggivano al tempio degl’Idoli implorando perdono con preghiere maladette.

Ma queste cose il Mostro non vedendo, o non curando, dappoi che ebbe ricerca tutta la città, giunse alle porte del palazzo di Solino, dove tagliata un’orecchia a un lione, scrisse con quel sangue su pel muro M. N. M. P. V. D. – Le quali lettere non sapendosi da nessun savio interpretare, certa donna non mai più vista comparve, e affermò poterlo fare, dove Solino mostrasse cuore di udire. Solino, sebbene non avesse membro che gli stesse fermo, pregò anzi, che volesse dimostrargli lo scritto: al quale ella parlò: – Solino, Azzael ti sta sopra, perocchè le lettere significhino: la tua morte non sarà morte, ma principio di vita di dolore. Ora poi, che il cielo ti è chiuso, ti conforto a disperarti e a morire. – Così favellando, proruppe in altissime risa, e disparve. Solino cadde tramortito per terra, e insanguinandosi la bocca e la fronte rimase oscenamente deturpato nel volto. Sorse il mattino, ma il raggio del sole non rallegrò la terra: il fumo si era diffuso per l’orizzonte e vi stava immobile come tenda. Il mostro però non si vedeva: solo si udiva il ruggito dei lioni, e il bramire degli orsi. In quel giorno d’ira e di vendetta non un uccello fu visto pel cielo, ma tutti paurosi si rimasero nel nido a tutelare sotto l’ale i figliuoletti loro: non una fiera percorse la foresta: chè il senso del terrore strinse più forte di quello della fame; i cani a testa bassi, a coda dimessa, vagavano incerti qua e là in traccia dei soliti abituri, e se quelli trovavano chiusi, mandavano tanto lamentosi ululati, che veruno uomo, per quanto crudele, gli ascoltava senza pietà. Rinnuovavano i cittadini le preghiere; ai loro Idoli le più care preziosità profferivano: e si trovarono di tali che per placarli le vene delle mani e dei piedi si segavano, e quel sangue scorrente presentavano in oblazione. Venuta la fine di quel terribile giorno, la nuvola nera cominciò a tuonare per modo che toglieva l’udire, l’atmosfera apparve tutta infiammata e offendeva il vedere, un fetore intensissimo tolse l’odorato; poi la terra mise vento rombando, e un terremoto scosse la città, sì che la più parte delle case ruinò, e meglio di centomila cittadini perirono. Il Mostro adesso apparve su la piazza di contro al palazzo di Solino. Il suo sguardo dapprima spento si accese, a proporzione che quel flagello della natura cresceva, e allora quando vide le sparse viscere dei tanti miseramente schiacciati, e l’orrore delle rovine, divenuto affatto di fuoco, mandò scintille, le quali appresesi di subito al palazzo di Solino suscitarono in un momento tale incendio che i legni e i ferri non solo, ma le pietre stesse infiammate si liquefacevano.

Il Mostro si precipitò tra le fiamme, e di lì a poco, rovinando tutte le pareti del palazzo, rimase in piede una sola stanza dove Solino steso sopra un letto si dibatteva disperatamente contro il Mostro, che appuntellategli le ginocchia sul petto con atroce compiacenza lo strangolava.»

A queste parole era giunta la novella di Matelda; le damigelle disposte in circolo stavano tutte intente al suo volto, mostrando per gli occhi smarriti e per la pallida faccia la paura che occupa va le anime loro, allorchè le porte della sala si schiusero fragorose; l’aria ventando con impeto spense ogni lume; un’alta voce si fece udire, e il mutare de’ passi pesanti, e lo strisciare di vesti sul pavimento.

Un súbito terrore percorse veloce le vene di tutte le damigelle, e l’una afferrando strettamente l’altra pel braccio o per la veste, sospinte dalla medesima paura si volsero al luogo donde usciva il romore, gittando altissimo grido.

E qui, infastidito di avvolgermi in tanta bruttezza d’invidia, di vanità, e di errore, abbandono volenteroso il soggetto. Turpi o frivole sono ordinariamente le passioni di femmina, ma altri sia il Cam delle loro vergogne, siccome altri l’adulatore. Vago di manifestare quello che occorre di bene nello spirito loro, ne lascio la sozzura all’ira, al disprezzo, od alla compassione degli uomini.

CAPITOLO TERZO. IL PRIMO BACIO

Il mattin lucido lei sospirosa,

Lei sospirosa vede dal tacito

Suo cocchio d’ebano la notte ombrosa;

Di tutta l’anima divien signore

Amor, se sola, se inerme trovala;

Donzelle tenere, temete Amore.

Arminio, tragedia.

Che cosa è mai il tremito dilettoso che sorprende il corpo e la mente all’aspetto della bellezza? – Forse l’anima fu destinata a sentirsi commuovere per tutto quello che è bello? Forse il principio divino dell’uomo gode vagheggiare quaggiù tutto quello che sembra di Dio? Ma perchè dunque il pensiero non si esalta alla vista dei cieli? Perchè scorgiamo tranquilli il torrente della luce? Perchè se pietà di consorte o di amico non ci compunge, non mandiamo sospiro allo aspetto del pianeta della notte? – Che ha mai la terra da agguagliare alla grandezza dei cieli? Ahi! non l’anima si sublima alle forme della beltà: non il pensiero divino si esalta alla emanazione del Padre delle cose perfette; bensì il furore di turpe voluttà ci turba nel profondo, è l’idea di sozzo piacere quella che ci stringe il cuore, e ci rapisce la voce. Uomo, tu puoi essere solo convenientemente paragonato al fango dal quale nascesti! O amaro frutto della scienza del bene e del male, tu ci bai tolto perfino le illusioni che potessero essere magnanime, i palpiti del cuore!

La gioia dello intelletto suscitata da un istante di esaltazione, dove non trovi cosa reale che la mantenga, poco dura. Colui che travaglia le anime immortali troppo profondamente conosce tutti i modi della pena per non lasciarle lungo tempo in una medesima angoscia; perocchè allora o questa angoscia diverrebbe natura per forza di prepotente abitudine, o, se tale da non potersi durare, la morte correrebbe veloce su le tracce di quella; onde il Tormentatore che allontana quanto più può la morte dalla sua vittima, conoscendo il travaglio consistere meno nella intensità che nella durata, si mostra sollecito a variarle il modo di supplizio, onde non si abitui o non soccomba. Arimane, allorchè si avvisa perdere lo sventurato viandante, non lo aggrava di subito con tutta la forza della sua potenza, ma a quando a quando gli manda tra le frasche della foresta una luce, o suscita una voce di gente vicina, affinchè il suo cuore si apra alla speranza, che poi gli faccia più amaro lo sconforto della tenebra, e della quiete spaventosa che precede la tempesta. Stanco finalmente il mal Genio di questo giuoco spietato, appresta l’ultimo danno, e lo scherno più feroce. – L’abituro degli uomini dista pochi passi dal viandante; già il suo spirito si rallegra nel piacere del calore che renderà il moto alle sue membra irrigidite, e nel ristoro del cibo; ma tra lui e l’abituro è aperta una voragine… egli dirizza il guardo alla luce, nè bada alla via… la terra gli manca sotto i piedi… precipita alzando urla disperate; alle quali fanno eco le risa di Arimane, che, sporgendo la testa dall’orlo del precipizio, gode vedere su quante rocce percotendo lascerà viscere e sangue, prima che giaccia lacerato nel fondo.

I fantasmi della gloria aveano abbandonato il giovane scudiero posto a guardia dei giardini reali: ad ora ad ora cupamente gemeva, ed esclamava: «O ambizione! o amore!»

Al pronunziare che fece questa sentenza, un leggerissimo moto lo trasse a sollevare gli occhi da terra, e… non sarebbe questa una illusione della sua mente di fuoco?… No… una forma leggiadra più che fantasia può immaginare, e poesia descrivere, gli stava dinanzi. La sua persona era tutta avvolta in lungo velo nero chiamato grimpa, che a quei giorni le belle Siciliane adoperavano per cingersi collo e seno, e parte del corpo, facendo più lieta la bellezza col suo migliore ornamento, – il pudore. Mortale la dimostravano il ventilare delle vesti. che svelava tutti i cari contorni di quel corpo delicato; ma il passo leggero, che appena piegava le foglie calpestate, poneva il risguardante in forse, se più che alle terrene appartenesse alle spirituali sostanze. – Il fantastico poeta l’avrebbe detta il Genio della Malinconia, che scende tacitamente nella notte a mormorare in basse voci un lamento, per non isvegliare i figli della terra ora solo felici: – ora, perchè oppressi dal sonno fratello della morte.

La vergine del sangue svevo, ignara da cui movesse quel sospiro, si volse al luogo donde era uscito per consolare l’afflitto; – perchè in qual cosa mai consisterebbe gentilezza del cuore, se il grido della miseria fosse invano ascoltato?

«Santa Maria dello Spasimo!» diss’ella, entrando sotto la volta che i raggi della luna non rischiaravano; «i tuoi devoti sono più di quelli che vorrebbono. e dovrebbero essere. – Chi è che geme qui dentro? Parla… se sei sventurato, sappi che nessuno si dipartì senza conforto dal cospetto della figlia del Re Manfredi.»

La risposta fu indarno lungamente aspettata; i labbri dello scudiero non si prestarono all’usato officio, ma tremarono, e il soffio della morte parve estinguere in lui la fiamma della vita.

«Parla,» riprendeva Yole «non mi muove già vano desio a conoscere le tue sventure. Se in me non fosse potere da consolarti, non avrei la crudeltà di domandare i tuoi patimenti; perchè sebbene la curiosità ostenti la favella della compassione, io per me aborro colui, che pretende conoscere il cuore dell’uomo per lo indolente piacere di conoscerlo. Io ti sollecito a parlare; se i tuoi mali possono consolarsi, tu avrai conforto da Yole; dove io non basti, aspettalo dal tempo; se neppure questo giova, aspettalo…»

«Dalla morte!» gridò lo scudiero.

Qual fu il senso segreto di Yole a questa voce, e a questa sentenza? E’ fu tal senso, che favella umana non può riferire; la quale cosa crederemmo pietà, se mancando i modi di significarlo non ci fosse stato compartito cuore da sentirlo. E il volto? Ah! le tenebre le coprivano il volto, ma certo fu quello della creatura che dal tempo precipita nell’infinito.

Un lungo silenzio seguiva: alfine Yole con voci interrotte continuava:

«Dalla Religione, – Rogiero, – dall’esempio della pazienza del Signore.»

«Pazienza! – E sempre pazienza! S’eravamo nati a soffrire, perchè non ci fu data un’anima più forte a sostenere, o perchè fummo tolti dal fango, che non sente di essere calpestato, alla forma che freme per la gravezza dell’oppressione?»

«Profondi sono i misteri del Creatore… sperate… I cieli annunziano la gloria di Dio, ed egli non può fare a meno che reggere giusto;… mantenete la vita, non perchè ella sia bene, ma perchè la morte è ineffabile dolore.»

«Ma solo… Spenta la vita dell’anima, che è la speranza, la distruzione del corpo segue necessariamente, e con ambascia infinita. Or tutto sta nella scelta di sopportarla sparsa per lungo spazio di vita, o concentrarla in un punto, e morire. Guardimi il cielo da vituperare colui al quale la natura non ha dato la forza di vedersi brillare la punta del pugnale sul cuore, con lo stesso sorriso che altri accoglie l’aspetto della bellezza; – ma neppure chi lo può, sia biasimato. La via di colui che sta in cima al monte va alla pianura; altri stende il corpo sul pendio, e trasvola al termine del sentiero; altri vi perviene movendo il piede in brevi passi, tentando prima il luogo, ritraendosi, e nuovamente provando. Chi di costoro vuolsi lodare, chi riprendere? Nessuno: quegli fu ardito, questi cauto; – ma la via di ambedue tendeva alla pianura, ed ambedue la fornirono.»

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