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La plebe, parte II
La plebe, parte II

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La plebe, parte II

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Язык: Итальянский
Год издания: 2017
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Maria non capì bene del tutto la teoria economica cui adombravano le parole di suo padre, ma sentì pur tuttavia che in esse vi era un fondo di vero. Stava per muovere una sembianza d'obbiezione affine di farsi spiegar meglio la cosa, quando il domestico si presentò di nuovo all'uscio.

– Quella donna, diss'egli, ringrazia con tutto calore Madama della sua carità, ma insiste, piangendo, perchè voglia farle la grazia di riceverla, e dice che questa sarà una carità più fiorita ancora.

Teresa, avvezza a dipendere in ogni cosa dalla volontà di suo marito, volse verso di lui uno sguardo interrogatore; ma quella petulantella d'una Maria, senz'attendere dell'altro, esclamò tutto animata:

– Oh sì, sì, bisogna riceverla… Fatela venire… Non è vero, mamma, non è vero, babbo, che bisogna farla venire?

Il padre fra il pollice e l'indice della mano destra prese il mento di Maria e disse scherzosamente:

– Che testolina che vuol fare a suo modo!.. Ricevete pure quella povera donna. Voi siete due buone anime pietose, ed è anche necessario che si dia alimento alla vostra pietà. Badate però che non bisogna mai credere tutto quello che contano i poveri per eccitare la compassione altrui…

S'interruppe come pentito d'essersi lasciato sfuggire queste parole.

– Però, riprese, non è mai in codesto che il lasciarsi ingannare sia colpa nè disdoro.

Il domestico era ito a prender la donna; Giacomo s'avviò alla porla che metteva nella sua stanza e nel suo studiòlo.

– Vi lascio in santa libertà.

Era già mezzo fuor dell'uscio, quando il bravo uomo si rivolse indietro a soggiungere:

– Quella poveretta, venendo fin qua per questo tempo, sarà tutta immollata. Potreste darle la tazza di caffè che non ha presa Francesco.

E sparì chiudendo l'uscio dietro sè.

– Com'è buono il babbo! Esclamò Maria. Con tutte le sue teorie utilitarie ha un cuore più tenero del nostro.

E chi avesse voluto in quel medesimo istante avere una prova del cuore tenerissimo che albergava in quel corpo di grossolano aspetto, non avrebbe dovuto che seguire il buon Giacomo quando uscì della stanza di sua moglie.

Egli s'era avviato verso il suo studiòlo, ma non aveva fatto la metà del cammino che aveva cambiato direzione e s'accostava alla camera in cui credeva che dormisse il figliuolo. Giuntone all'uscio, si fermò, stette un momento ascoltando, posò piano piano la destra sulla gruccia della serratura ed aprì, poi spinse il battente e cacciò dentro lo sguardo: la stanza era tutto scura da non potercisi vedere null'affatto. Volendo ficcare in mezzo ai battenti la sua testa, Giacomo spinse ancora un poco l'uscio, e questo mandò uno scricchiolìo. Il brav'uomo trasalì, come spaventato, rimase immobile a quel posto un istante, e poichè nulla udì muoversi tuttavia, mandò un sospiro, richiuse piano piano la porta e disse seco stesso:

– Per fortuna non s'è desto. Povero Cecchino! Lasciamolo dormire.

E se ne andò adoperando ogni possibil cautela per ammorzare il suo passo pesante.

Paolina frattanto era stata introdotta nella camera della signora Teresa, dove quest'essa e la figliuola Maria stavano aspettandola.

Nella prima parte di questo racconto, abbiamo visto la infelice donna andar cercando suo marito Andrea nella ignobile taverna di mastro Pelone, affrontare i mali trattamenti di Andrea e le insolenze del perfido amico di lui, Marcaccio, ma riusciva pur tuttavia a trarsi seco il suo uomo per ricondurlo alla denudata soffitta dove aspettavano pane i loro figliuoli. Abbiamo visto come fosse tale il miserevole aspetto di questa donna da ispirar compassione a chiunque la mirasse; livida, macilenta, strappata, senza forze qual essa era1; ora, nel momento in cui timorosa, tremante per emozione e per freddo, gli occhi rossi, ella si presentava sulla soglia della stanza della signora Teresa, la notte che era trammezzata, pareva aver condotto sul capo a quella infelice un doppio cumulo di anni, di stenti, di dolori e di fisica infermità. Paolina si fermò un istante come per prender fiato; il petto le ansimava penosamente; la sua tosse profonda suonava più cupa e più dolorosa che mai ad udirsi; le sue povere vesti, sottili pel rigore di quella stagione, le stavano serrate addosso sulle gracili membra, immollate com'erano dalla neve piovutale su per la lunga tratta di cammino che la misera aveva fatto a venir sin lì. Girò essa gli occhi intorno quasi smarrita; volle parlare per dare un saluto, ma dalle tremole labbra allividite non uscì che un balbettìo di debol voce; esitò, fece uno sforzo ancora per avanzarsi e parlare; e ruppe in pianto disperatamente.

Teresa e Maria le furono accosto con affettuosa premura; la presero per quelle mani magre, quasi diafane, fredde come ghiaccio e la trassero vicino al fuoco; le dissero generose e soavi parole di incoraggiamento, d'interesse e di compianto.

– Sedete qui, povera donna; e Teresa le additava la bassa seggiola, su cui stava poc'anzi ella stessa: riscaldatevi un po'… Santa Madonna della Consolata, come siete tutta fradicia!.. Lì, così: via, calmatevi; abbiate coraggio… Vi è capitata qualche disgrazia?.. Fiducia nella Provvidenza, mia cara, e rassegnazione ai voleri di Dio.

Maria frattanto, con quella leggiadra lestezza di mosse che le era particolare, aveva riempito di caffè una delle tazze che col vassoio si trovavano tuttavia sul tavolino, ed agitando in essa il piccolo cucchiaio d'argento per farvi fondere lo zuccaro, la porgeva a Paolina, la quale invano si sforzava di frenare le lagrime ed i singhiozzi.

– Prendete, bevete questo po' di caffè caldo: diceva la ragazza colla sua voce così dolce e simpatica; ciò vi renderà un po' di calore in corpo.

– Grazie, grazie: balbettava la misera coi denti che le mozzicavano le parole battendo insieme. Che Dio ne le rimeriti!

Maria s'accorse che Paolina aveva i piedi nudi entro scarpe rotte, in cui liberamente entrava da tutte parti l'umido della strada; ricordò in quel momento come suo padre mezz'ora innanzi si fosse dato sollecito pensiero di sapere s'ella era ben difesa dalla sua calzatura contro l'umido della neve, sentì intorno ai suoi piedini il caldo dei suoi stivaletti impellicciati, e non potè a meno che stabilire una specie di confronto, onde la sua anima pietosa rimase vivamente commossa; senza dire nè un nè due, fu in un salto nella sua camera, e tornò correndo con un paio di stivalini da inverno, i quali, per fortuna, essendo troppo larghi pei suoi piedi, poterono accogliere quelli abbastanza piccoli eziandio di Paolina.

– Lasciate stare quelle orribili ciabatte: disse la buona fanciulla; e mettete questi calzari.

La pezzente rifiutò dapprima, esitò, poi ubbidì, ringraziando commossa, e, nel vedere così buone madre e figliuola, accogliendo nel cuore un po' di speranza che avrebbe potuto conseguire il fine per cui era venuta, ed aveva insistito affine di essere introdotta presso la signora Teresa.

Fu quest'essa che, allorquando Paolina parve un po' riconfortata dal calore della fiamma e da quello della bevanda, e la emozione di lei si fu alquanto calmata, le disse:

– Or via, buona donna, diteci che cosa vi è capitato e che cosa possiamo fare per voi.

Paolina stette silenziosa un momento a capo chino, quasi le mancasse il coraggio; e poi con evidente sforzo cominciò a parlare: ma noi capiremo meglio le triste condizioni di quella disgraziata, se tornando indietro d'un passo, ci rifacciamo al momento in cui, la sera innanzi, ella usciva dalla bettola di Pelone, traendo seco pur finalmente, dopo molti sforzi, il marito ubbriaco.

CAPITOLO III

Andrea si era lasciato condurre a casa dalla moglie, la quale ne aveva dovuto faticosamente sorreggere il passo barcollante. L'aria aperta e il freddo vento della notte avevano giovato alquanto a rischiarare all'ubbriaco la mente dai fumi del vino, e due idee le stavano innanzi precise e distinte: quella de' suoi figliuoli e della moglie che pativano, e quella dei torti ch'egli aveva verso di loro; onde barellando nel suo camminare sostenuto alla moglie, di tratto in tratto sparava una bestemmia, mandava un singhiozzo, faceva un atto di disperazione e borbottava colla lingua grossa ed impacciata:

– I miei figli!.. Pane ai miei figli!.. Sono un miserabile!

Così camminando, stiracchiato, a scossoni, a zigzag, fermandosi ogni tratto, in un tempo triplo di quel che sarebbe occorso, giunsero pur finalmente alla casa che abitavano, la quale, come sappiamo già, era una di quelle possedute da messer Nariccia il bigotto usuraio, e quella appunto in cui abitava egli stesso, e in cui Maurilio aveva passati quei tristi giorni che gli abbiamo udito narrare a Giovanni Selva.

Il signor Nariccia era troppo avaro per rischiarare pur d'un lumicino l'andito e le scale della casa e approfittava dell'incuria municipale, che a quel tempo non imponeva siffatto obbligo ai padroni, per lasciar rompere il naso ai suoi inquilini finchè l'abitudine li avesse guarentiti contro tale pericolo.

Urtando qua e là colle spalle nelle cantonate, coi piedi negli scalini, colla testa negli spigoli delle pareti, guidato, tirato, sorretto dalla moglie, Andrea era oramai pervenuto al terzo piano vociferando le più salate bestemmie di questo mondo, fra cui ricorreva sempre il ritornello: I miei figli, sono un miserabile.

Giusto al terzo piano, l'ubbriaco inciampò, e la moglie, troppo debole per sostenerlo, non potè impedire ch'egli andasse a battere con tutto il peso della sua abbandonata persona, contro un uscio, il quale suonò come percosso da una catapulta.

E qui dalla bocca di Andrea irritato giù una filza di bestemmie e d'imprecazioni.

– Accidenti al padrone di casa!.. Che il diavolo si porti quel ladro avaro, sanguisuga della onesta gente, che non mette manco la miseria di un lumino su questa sua scala maledetta di questa casa del demonio che vorrei profondasse fino giù al fin fondo dell'inferno!..

Paolina aveva bel dire: – Zitto, zitto Andrea, non dir così, vieni, andiamo su: – ed aveva bel tirarlo pel braccio; l'ubbriaco non si muoveva di un punto e gridava ancora più forte.

Ora quell'uscio contro cui il marito di Paolina era precipitato con tanto impeto, metteva niente meno che nel quartiere abitato da Nariccia medesimo; ed ecco – vista tremenda per Paolina – aprirsi in quella l'uscio fatale e comparire il signor Nariccia in persona con una lucerna in mano.

– Che cos'è questo chiasso? Cominciò egli a dire con tutta la severa imponenza di cui era capace. Che cos'è questa temerità di percuotere in tal modo contro l'uscio della mia abitazione? Che cosa sono queste sconcie impertinenze che andate sbraitando?

Paolina volle dire alcune parole di scusa.

– È inutile che cerchiate di negare; ho udito tutto, e se non fosse del debito che ho di buon cristiano di perdonare, ve la vorrei far pagare cara e salata…

Andrea era rimasto sovraccolto al primo apparirgli del padron di casa; ma poi tosto, ripigliando quella certa famigliarità che hanno con chicchessia gli ubbriachi, diceva a sua volta:

– Scusi… Perdoni… sa! Quello che ho detto, l'ho detto… ecco… perchè… corpo d'un accidente… gli è la verità…

– Vieni, vieni: s'affrettava ad interrompere Paolina. Non teniamo qui dell'altro il signor Nariccia a questo freddo.

– Lasciami stare: rispondeva Andrea, respingendo la mano della moglie: voglio parlare… voglio spiegarmi… Ecco! Qui è maledettamente scuro come in una caverna dì briganti… non fo per dire… Non ci si vede la punta del proprio naso.

E Paolina a soggiungere:

– Non abbiamo urtato apposta nel suo uscio; mio marito s'è inciampato e…

– Ecco! Interrompeva l'ubbriaco. Mi sono inciampato. Non è già ch'io non istia ritto sulle mie gambe… Tutt'altro! Sfido qualunque, io!.. Sono un miserabile… sì, va bene… ma non sono punto ubbriaco… Dunque se ho risicato di rompermi la cassa de' corni contro i chiovoni di ferro di quel maledetto uscio lì, non l'ho fatto apposta… Sono un miserabile, è vero, ma non l'ho fatto apposta… Ecco!

– Apposta o non apposta: interruppe bruscamente Nariccia; a me poco importa. Del resto opportunamente mi venite innanzi, chè ho da parlarvi, e giusto pochi momenti sono mi son preso l'incomodo di salire fino alla vostra soffitta. E ciò che ho da dirvi, è detto in due parole. Voi mi dovete sei mesi d'affitto: o pagatemeli domani, o doman sera dormirete in altra casa e non più certo nella mia.

Andrea e Paolina rimasero sbalorditi.

– Gesummaria! Esclamò la donna stringendo le mani e levandole supplichevolmente verso il padrone di casa. Oh buon signore, abbia compassione di noi!..

Ma Nariccia fulminando d'uno sguardo velenoso la povera donna col destro de' suoi occhi birci, mentre col sinistro saettava l'oscurità del vuoto della scala, interruppe fieramente:

– Io non sono un buon signore, io! Sono un ladro, un avaro, una sanguisuga dell'onesta gente. L'avete gridato voi…

– Signore…

– L'ha gridato vostro marito.

– S'accerti…

– Niente. Non voglio sentir più nulla, non voglio dir più niente. Avete udita la mia volontà. Basta!

E richiuse con fragore l'uscio ferrato, dietro il quale si sentì il rumore dei chiavistelli ch'egli tirava e dei catenacci che faceva andare a posto.

– Ah cane d'un cane peggiore d'ogni cane: si diede ad urlare Andrea scaraventando con tutta la sua forza dei pugni contro le imposte dell'uscio, saldo come macigno. Gli è così che si tratta la povera gente? Sulla strada e' ci vuol mettere… Accidenti! Sulla strada i miei figli… Sciagurato! Che sì che se ti prendo per quel cravattino bianco… forca e tenaglie!.. ti faccio schizzar fuori quegli occhi guerci…

La moglie lo pregava a tacere, a venir via di lì, lo tirava con tutta la sua forza, gli tappava colla sua mano la bocca; ma l'ubbriaco resistendo, aggrappandosi al muro, puntando i piedi al suolo seguitava pur tuttavia a gridare colla voce rauca, avvinazzata, di cose parecchie.

– Sono un miserabile io, sì, è giusto… Ma mia moglie, giuraddio!.. ma i miei figli, sacramento!.. Cacciarmeli sulla strada? Oh no, oh no, oh no!

E giù nuovi pugni contro l'uscio e nuove imprecazioni contro il padron di casa.

La moglie riuscì pur finalmente a levarlo di lì; e contrastando, inciampando, borbottando, Andrea pervenne alla fine sin nella soffitta abitata dalla miserissima famiglia. Là dentro regnavano un'oscurità non rotta che dal riflesso bianco della neve sui tetti vicini ed un silenzio che pareva di tomba. I bambini, dopo aver aspettato, dopo aver pianto, dopo aver chiamato invano durante l'assenza prolungatasi della madre, avevano ceduto alla debolezza della età e del digiuno, e s'erano addormentati. L'occhio di Paolina, esercitato a quella tenebrìa, li vide, appena fu essa entrata, giacere tutti quattro sul loro strammazzo, l'uno accosto all'altro, come raccolti in un gomitolo, scaldandosi a vicenda e sorreggendosi, le piccole testine reclinate come fiori appassiti, le gambe ripiegate, immobili come tanti piccoli cadaveri.

La povera madre trasse un sospiro e benedisse in cuor suo la pietà del Signore; dormendo, i bambini almanco non sentivano più il tormento della fame. Oh! avessero potuto dormir così tutta notte, fino a che il domani ella fosse riuscita a procacciarsi un po' di pane per essi! Come avrebb'ella ottenuto codesto? Non lo sapeva, ma confidava nella Madonna, confidava nell'efficacia di quelle preghiere in cui avrebbe consumata tutta la notte.

Ma sperare che i bambini potessero non venir desti era un fare i conti senza l'oste, o per dir meglio senza l'ubbriaco.

Andrea, sempre barcollante, cominciò per urtar malamente in un zoppo trespolino che trovavasi fra i pochissimi e poverissimi mobili ond'era composta la masserizia di quella soffitta, e quindi giù una filza di bestemmie a sfogo del suo dispetto.

– Accendi il lume, Paolina, gridava il marito: oh che io ho da camminare allo scuro come i gatti?

– Il lume? Rispose la donna con doloroso accento, pure ammorzando il suon della voce. Non ce no ho di lume.

– Che? Non ce ne hai?

– No, nè olio, nè candela.

– Vanne a prendere.

Paolina mandò un sospiro che somigliava ad un gemito.

– Se avessi qualche denaro avrei comprato del pane pei nostri figli che dormono digiuni da questa mattina.

L'ubbriaco portò le mani con atto macchinale alle tasche del panciotto, che sapeva vuote pur troppo.

– E non ho manco un soldo da darti! Si mise a gridare, cacciando un pugno a quel trespolo contro cui aveva urtato, ed al quale ora sorreggevasi. Oh! sono un miserabile!..

– Taci, taci: disse la donna: non isvegliare almanco i bambini…

Ma il male era già fatto. I figliuoli al rumore avevano aperto gli occhi, ed a quell'incerto barlume vedendo le ombre di due persone, sollevandosi sul misero giaciglio, intirizziti dal freddo, si posero a dire tutti insieme colla voce piagnolosa:

– Sei tu, babbo, sei tu, mamma? Ci avete portato da mangiare?

– Ho fame, ho tanta fame.

– Mamma, mamma, sono tutto ingranchito… Ho male… ho fame…

E il più piccino, senza formar parola, ricorse tosto al più eloquente linguaggio del pianto, nel quale tosto tosto gli tennero bordone anco gli altri.

Paolina fu presso di loro sollecita, carezzevole, amorosa ad acchetarli, a dir loro fra i baci tante ragioni per cui dovessero aver pazienza e dormire tranquilli per allora e che era troppo tardi in quel momento per trovar da comprar cibo, e che al domattina avrebbero avuto di sicuro pane e companatico e tante tante leccornie. Ma sì! ventre affamato non ha punto orecchi, dicono i Francesi, e i bambini seguitavano a domandare, piangere e strillare della più bella.

Andrea piantato a mezzo la soffitta si dava sempre più del miserabile a piena bocca e dei pugni nella testa a piene mani.

La povera madre, mercè le buone parole e le carezze, la stanchezza loro aiutando, riuscì pur finalmente a far azzittire i bimbi che ricaddero in un sonno di abbattimento da chiamarsi quasi torpore; allora essa li ricopri il meglio che le venne fatto con tutti quei pochi panni che rimanevano alla loro miseria, affinchè sentissero meno il freddo di quella notte invernale, e si rivolse ad acchetare eziandio il marito che continuava a strapazzarsi coi più fieri oltraggi.

– Andrea, gli disse, a qual punto siamo ridotti tu il vedi…

– Non parlarmi, non dirmi nulla, interruppe egli in cui sotto l'emozione l'ebrietà andava alquanto dileguandosi. Tu non puoi movermi rampogna che io non me ne faccia di peggiori.

– Nè io te ne farò pure alcuna. Te l'ho detto che non avrei pronunziato un rimprovero… Non è questo che ti voglio dire. Voglio anzi che tu stesso ti calmi e prenda riposo perchè ne abbisogni, e domani, a mente più fredda, penseremo ai casi nostri; e se tu, pentito come ti mostri, avrai proprio fondato il proponimento di mutar vita e di tornare quello che eri una volta, io benedirò il Signore e la Madonna della Consolata che ci avranno fatta la più bella grazia che potessimo invocare.

Lo prese amorosamente alle braccia, e con dolce violenza lo spinse verso lo strammazzo che loro serviva da letto. Andrea riluttò debolmente e borbottando, bofonchiando, esclamando, gemendo si lasciò coricare, e dieci minuti non erano passati che, intorpidito dai vapori del vino, egli faceva suonar la soffitta del suo robusto russare.

Il marito e i figliuoli di Paolina dormivano; ma non dormiva essa, la povera donna. Non prese nemmanco posto sullo strammazzo; ben sapeva che il sonno non sarebbe venuto alle sue pupille stanche, inaridite, quasi direi consumate dal pianto. Accoccolata presso il giaciglio dei suoi figliuoli, stette lì intirizzita, tremando, battendo i denti tutta quella ghiaccia notte d'inverno. E non era il freddo soltanto a tormentare quel povero corpo! L'infermità che in lei avevano prodotto le privazioni, gli affanni d'ogni fatta le veniva, quasi potrebbe dirsi ora per ora, consumando la vita. Il colpo che quella sera medesima il marito ubbriaco le aveva dato nel petto, avevale accresciuto il dolore e l'affanno del respiro e la tosse penosa. A volta a volta sentiva sotto l'impeto di questa tosse il suo debole stomaco contrarsi in tale spasimo che pareva volesse scoppiare; e l'infelice se lo comprimeva colle mani gelate e convulse. E ancora a quei momenti l'assaliva il timore che la sua tosse così forte giungesse a svegliare i bambini, e quindi a richiamarli al sentimento del loro bisogno che non si poteva soddisfare, alle lamentazioni ed al pianto. Si sforzava perciò a frenarla quella penosissima tosse, e non poteva, e ad altro non riusciva che ad accrescere il proprio soffrire.

E non era nulla ancora il patimento fisico appetto a quello morale ond'era travagliala l'anima sua! Come provvedersi il giorno di poi da sfamare i figli suoi? E se ciò non avesse conseguito, che sarebbe stato di loro? O Dio! Essa vedeva il pallido spettro della fame tendere sulle bionde teste de' suoi piccini l'adunco artiglio. Avrebb'ella dunque dovuto vederli morire? E col padrone di casa come la si aggiustava? In che modo procacciarsi da soddisfarlo? Che cosa escogitare da commuovere quelle ferree viscere da usuraio? Nella sua fantasia delirante, con acuto spasimo nel cervello, che pareva il tagliuzzio di finissime lancette, si formava l'immagine di quello che sarebbe avvenuto. Ella vedeva se stessa e i suoi figli abbandonati sulla via, senza tetto, sopra il cumulo della neve, e soffiando sulle loro membra appena se ricoperte, sulle loro carni allividite, soffiando con aspra intensità il rovaio.

Di sè poco le importava: oh! se essa sola avesse potuto soffrire, e con ciò togliere a quei tormenti i figli, la carne della sua carne!.. Ma gli era questi esseri supremamente diletti ch'ella vedeva contorcersi nel dolore, che udiva gemicolare nell'agonia!..

Donne felici e liete di beltà e di ricchezza, che siete nate e vivete nel prospero ambiente degli agi; mogli e figliuole di arricchiti, a cui le avventurate speculazioni del marito e del padre mettono in potere le enormi somme che vi costano i vostri abiti, le vostre trine, i vostri scialli, i vostri diamanti; non pensate voi mai, in mezzo al tripudio d'una festa, che in quello stesso momento forse – e senza forse – qualche povera madre in una diserta soffitta piange e s'affanna per non aver pane da dare ai suoi figli, per non aver calore da sgranchirne i gracili corpi, per non avere un obolo che ne assicuri il domani?

Oh! pensateci qualche volta!

Ma un'altra immagine eziandio appariva alla fantasia o, dirò meglio, alla memoria dell'infelice, una lieta immagine, ma pur tuttavia non meno, anzi forse più dolorosa ancora della prima: la visione della quieta felicità d'un tempo, ora da parecchi anni perduta. Paolina rivedeva se stessa ricca dell'amore, dell'onestà, dell'abile lavoro di suo marito, felicemente orgogliosa de' primi suoi nati; allora il fiore della salute rallegrava le sue fresche guancie, ed anco il fior della bellezza, s'ella aveva da credere allo specchio ed agli sguardi ed alle susurrate parole con cui la salutavano sul suo passaggio i giovani signori ch'ella non curava; allora la sua mite anima non sapeva che cosa fosse amarezza e il suo sorriso e la sua canzone erano i più allegri del mondo. La si rivedeva al cader del giorno seduta presso la finestra della pulita cameretta, dar gli ultimi punti nel suo cucito, aspettando il ritorno di Andrea, e cullando col piede il bambino – fresco, roseo che pareva un amorino. Poi Andrea rientrava; il lavoro era finito anche per lei, i panni si gettavano in tutta fretta nella cesta, ed ella scattando da sedere si slanciava al collo di lui a dargliene il bacio del ritorno. Il marito divideva i suoi baci fra lei e il figliuolo: poi questo nutrito del latte materno si riaddormentava sorridente in mezzo a loro…

E quei tempi erano iti, e non sarebbero tornati mai più!

Paolina ricordò Marcaccio, il tristo amico d'Andrea, che era venuto a tôrre quest'ultimo ai suoi più sacri doveri, e un odio immenso assalse quella povera anima infelice.

Lunga, tremendamente lunga fu quella fredda notte insonne alla moglie di Andrea; ma pur finalmente ebbe fine ancor essa. Appena un po' di luce diurna si fu messa in quella nuda soffitta pei cristalli della finestra, molti dei quali erano sostituiti da fogli di carta, Paolina svegliò il marito che dormiva tuttora del sonno pesante dell'ebbrezza. I bambini dormivano eziandio, aggruppati ancora tutti insieme, per riscalducciarsi l'un l'altro sotto i diversi panni che la madre aveva rammontati su di loro. Erano pallidi pallidi e livide avevano le occhiaie affondate in cui stavan chiuse le palpebre; e quella dubbia luce del crepuscolo e il biancolastro riflesso della neve dai tetti circostanti accrescevano ancora quel pallore e quella lividezza. L'aspetto loro era tale da serrare il cuore d'un estraneo non che d'una madre.

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